lunedì 12 febbraio 2007

LA VITA FINO IN FONDO

LA VITA FINO IN FONDO

Famiglia Cristiana n.2 del 14 gennaio 2007

La sclerosi laterale amiotrofica lo ha quasi paralizzato. Ma ancora lavora in ospedale e gode dell’affetto dei suoi. In passato ha avuto la tentazione di "farla finita". Ma poi ha letto il libro di Giobbe...

Gli occhi sono lo specchio dell’anima, recita il detto. La biografia di un uomo traspare da questi due piccoli diamanti incastonati nel viso molto più che da mille parole. Varrebbe la pena per chiunque penetrare quelli azzurri di Mario Melazzini, primario oncologo, carisma da vendere, anzi da regalare a chiunque lo avvicina, biografia asciutta come il suo fisico, nonostante la sclerosi laterale amiotrofica, in gergo medico "Sla", che lo ha reso ormai quasi completamente paralizzato. Malattia tanto difficile nel nome e nella diagnosi quanto facile da pronosticare nell’esito, fatale in 4 o 5 anni di progressiva perdita del controllo di tutti i muscoli del corpo.
Classe 1958, lineamenti decisi, un uomo ancora affascinante. Montanaro della Valtellina, come il padre, ma nato a Pavia, dove lavora e vive con la moglie Daniela, la "fortuna della mia vita", come ama definirla, conosciuta quando era giovanissimo, e sposata a 26 anni, i figli Federica, laureanda in Medicina, che ha seguito le orme del padre, Michele, 18 anni, un futuro da ingegnere, e Nicolò, di 12, occhioni scuri da cucciolo che scruta il mondo con la curiosità di chi ha ancora tutto da scoprire. Mario Melazzini risponde alle domande dalla posizione per lui meno faticosa, coricato dal letto di casa sua, che si permette dopo la faticosa mattinata in ospedale passata a seguire, in carrozzella, i pazienti in trattamento oncologico.
• Come era la sua vita prima di scoprire la malattia?
«Mi sono laureato a 24 anni, poi subito il lavoro, guidato da autentici maestri di vita, oltre che clinici straordinari, come il professor Storti e altri, che hanno incanalato subito la mia vita professionale. Al lavoro mi sono dedicato anima e corpo non senza grandi soddisfazioni, come quando a 39 anni sono diventato primario. Per tutto questo mi considero un medico fortunatissimo».
• E poi che cosa è successo?
«Avevo quasi 44 anni quando cominciai ad avere i primi problemi. Ormai eravamo avviati anche come famiglia, avevamo comprato la casa, con sacrifici, erano nati i nostri figli. Fisicamente stavo bene, facevo molto sport. All’improvviso cominciai stranamente a trascinare la gamba sinistra, ma passò qualche mese perché mi mettessi a fare i primi esami. Noi medici di fronte ai nostri mali o ci facciamo subito "accanimento diagnostico" o rimandiamo sine die il problema. Due modi diversi di vivere la paura. Ci sono voluti molti mesi per arrivare alla diagnosi esatta: il medico, prima di fartela, vuole la massima certezza, perché esistono molte malattie che presentano sintomi analoghi ma che, a differenza della mia, sono curabili. Nonostante la già conclamata parziale inabilità, ricordo che la mia vita è davvero cambiata quando andai a Padova dal professor Angelini, che mi disse: "Caro Melazzini, lei ha la Sla". Ero con Daniela e Ron, il cantante, il mio amico fraterno di sempre. In quel momento compresi che dovevo fare i conti seriamente con la mia malattia».
• Quali furono le sue reazioni?
«Mi buttai nel lavoro, in forma quasi patologica, credo per rimuovere il male. Soprattutto rifiutai i miei cari, mia moglie in primis, ma anche gli amici. L’unico che con dolce violenza discreta non mi ha lasciato andare è stato Ron. Poi mi sono attaccato a un mio carissimo amico gesuita, padre Silvano Fausti, con il quale mi sono aperto nella mia disperazione».
• Quanto ha inciso la sua fede in questa vicenda?
«Sono stato sempre credente, fin dai tempi dell’oratorio. Anche nella mia vita in ospedale non mi sono mai negato i miei 15 minuti di preghiera in cappella, anche solo per sedermi e pensare alla giornata. Penso onestamente di non saper pregare né capisco molto di Sacra Scrittura. Ma questo importava poco a Silvano, che mi ha accompagnato semplicemente ascoltandomi. Non mi ha mai dato consigli. Ero molto arrabbiato, rifiutavo di essere prigioniero di un corpo che non mi apparteneva più. Ho pensato al suicidio assistito».
• Eutanasia?
«Non proprio. Ho contattato una clinica svizzera che, fatti i dovuti accertamenti, ti ricovera e ti procura il "farmaco", che tu poi ti somministri. È un suicidio, insomma. Il protocollo è rigido, da chi ti accompagna a chi ritira il cadavere. Uno squallore. Silvano mi consigliò di prendermi del tempo, di andare a Livigno, in montagna. Mi affidò la sua Bibbia e mi disse di leggere il libro di Giobbe. La cosa che ho capito di quel racconto è che Giobbe alla fine aveva compreso l’essenza dell’esistere, che cioè vale la pena di vivere la vita fino in fondo, nonostante tutto. Lì accettai per la prima volta la carrozzina e l’aiuto degli altri».
• Che cosa le ha insegnato la sofferenza nella sua vita?
«Una malattia come questa, come tante altre di tipo invalidante, è solo tua perché è dentro di te, ma in realtà grava su tutta la famiglia. Esiste certo la dimensione, terribile, della solitudine. Ma piano piano scopri che, ad esempio, l’aver bisogno delle persone ti dimostra che esisti, che nonostante tutto è bello vivere. Certo non è facile questo cammino di esodo dalla propria solitudine, ma può essere favorito da un corretto percorso di malattia condiviso con il medico in modo chiaro lungo il decorso, per prendere decisioni comuni e personalizzate, fino alla morte. Se sarà così, non si parlerà più di accanimento terapeutico e non ci saranno più richieste di eutanasia».
• Ha paura della morte?
«No, non credo. Sento che la vita non finisce qui. La morte, nonostante tutto, credente o non credente, è un passaggio».
L’ultima scena della nostra intervista ha per protagonista il ciuffo ribelle di Mario, che con ostentazione scende vanitoso e impertinente sulla sua faccia, quasi a ricordare a tutti che, nonostante tutto, è ancora un bell’uomo. Soccorre amorevole Daniela, che richiama all’ordine l’insubordinato ricollocandolo con delicatezza al suo posto, con uno degli infiniti gesti d’amore quotidiano che parlano, anche loro, come gli occhi di Mario Melazzini, più di mille parole.


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