domenica 11 febbraio 2007

OMICIDIO INFORMATO

Gli effetti collaterali del caso Welby
La vicenda di un uomo che, grazie alla "pietà" di un primario,
ha firmato la propria richiesta di morte. Senza saperlo.
Si è salvato solo per l'"insensibile" disubbidienza di un medico di guardia
di A Cura Del Clu

Tempi num.6 del 08/02/2007

Gli effetti collaterali del caso Welby
La vicenda di un uomo che, grazie alla "pietà" di un primario,
ha firmato la propria richiesta di morte. Senza saperlo.
Si è salvato solo per l'"insensibile" disubbidienza di un medico di guardia
di A Cura Del Clu

Ha spiegato a Tempi Giuseppe Casale, il medico che si rifiutò di staccare il respiratore a Piergiorgio Welby, che la morte del copresidente dell'associazione Luca Coscioni «non ha avuto un'influenza infausta sui malati. Perché chi è costretto a una grave sofferenza vuole vivere. Sempre. Invece penso che un'influenza l'abbia avuta sui sani, su di noi, sugli operatori, sui famigliari. Perché adesso mi capita sempre più spesso di incontrare parenti di persone indigenti che sono rosi dal dubbio: "Non farà mica la fine di Welby?"». Il caso recentemente accaduto che riportiamo in queste pagine - pur diversissimo da quello di Welby - testimonia però bene che la preoccupazione di Casale è meno lontana dalla realtà quotidiana di quanto si possa pensare. E che una certa mentalità - secondo cui, molto sbrigativamente, è vita solo ciò che rispetta certi non precisati standard di qualità - sia il primo mortifero idiotismo con cui confrontarsi.

Un uomo obeso, accanito fumatore - che per comodità chiameremo Mario - affetto da una grave insufficienza respiratoria cronica, si reca in ospedale per il riacutizzarsi del disturbo. è un disagio cui è abituato, anche se negli ultimi tempi ha dovuto intensificare le sue visite perché l'aria gli sembra sempre più spesso fuggire dai polmoni. Mario è un uomo sulla sessantina, con un livello di istruzione elementare, che conduce, tutto sommato, una vita regolare. Il male non lo costringe a letto, ma solo alla periodica e fastidiosa pratica della intubazione orotracheale. Fino ad oggi, ad ogni visita, a Mario è stato posto in bocca un tubo per ventilarlo. Terminata l'operazione, Mario è tornato al suo lavoro, alla sua casa, ai suoi affetti. Ma stavolta, gli spiega il primario - uomo cattolico e universalmente riconosciuto come buon professionista - sarà necessario un trattamento più invasivo: «Serve una tracheotomia». Mario si spaventa. Che significa? Il primario spiega che occorre inserire un tubo nella trachea, bucandogliela. Mario s'allarma ancor più, non comprende il perché, boccheggia, perché intanto all'ansia per il respiro che evacua si assomma quella di dover rimanere per tutta la vita schiavo di una macchina. Il dottore s'intenerisce, "gli viene incontro". Secondo la procedura standard per interventi di questo tipo, occorre che il paziente firmi il "consenso informato". Poiché Mario ha capito poco di quel che gli è stato comunicato frettolosamente, afferma di non voler essere attaccato a un respiratore artificiale. Così il primario scrive di suo pugno che il paziente «non autorizza la tracheotomia», cancella la riga del modulo prestampato in cui si afferma che «il paziente ha avuto la possibilità di porre domande e a tutto questo è stato risposto in maniera completa e soddisfacente» e aggiunge le seguenti parole: «Accetto come alternativa lo svezzamento del respiratore e il passaggio al respiro spontaneo e alla estubazione». Infine, viene messo nero su bianco che il «paziente non acconsente a ulteriori procedimenti come la reintubazione e riconnessione al respiratore».
Alle 14.00 Mario sottoscrive il consenso informato. Non sa di aver appena firmato la sua condanna a morte per soffocamento.

Se riattacchi, ti denuncio
Mario viene "svezzato", cioè gli viene staccato e riattaccato il tubo una serie di volte e poi lasciato respirare spontaneamente. è l'iter cui vengono sottoposti pazienti in via di guarigione, ma non è questa la condizione di Mario, anche se è quella che lui ha inconsapevolmente sottoscritto. Il primario affida il paziente al medico di guardia nel pomeriggio, consegnandogli il foglio con le sue ultime volontà. Secondo il primario il medico di guardia deve rispettare il proposito del malato, pena la denuncia. Non deve reintubarlo. Carta canta. Segue litigio fra i due perché il dottore - un agnostico - si rifiuta di lasciar andare al suo destino il paziente. Il primario, terminato il suo turno, lascia l'ospedale. Sono passati venti minuti e Mario, per il sopraggiungere di una nuova crisi respiratoria, non ce la fa, si sente mancare l'aria, si tinge di blu in volto. Ad ampi e stentati gesti fa chiaramente intendere di voler essere aiutato e il medico di guardia, contravvenendo alle indicazioni del superiore, lo riattacca al respiratore. Arriva l'aria. Il dottore spiega a Mario perché gli è stata proposta la tracheotomia e gli illustra i motivi per cui essa è utile. Lo delucida sul fatto che, nelle condizioni in cui si trova, la sospensione della ventilazione avrebbe significato morte certa. E aggiunge che il fastidio che avrà per la sua vita sarà minimo: gli verrà fornito un piccolo macchinario, portatile, di semplice utilizzo. Mario scopre così che con quel "respiratore domiciliare" potrà continuare a essere autosufficiente: alzarsi, uscire, bere, mangiare, parlare. Al termine della spiegazione, Mario scoppia in lacrime. Singhiozza che la prima volta non aveva capito, non era sua intenzione, c'è stato un equivoco. è soprattutto preoccupato per aver firmato il primo foglio. Il medico lo tranquilizza, e gli fa compilare un secondo "consenso informato" in cui sottoscrive la propria volontà a essere tracheotomizzato. Sono le 17,40. Adesso Mario è in questa condizione, respira tramite un tubo, ma non è detto che debba rimanere così per tutta la vita. Se le sue condizioni miglioreranno, un giorno potrà toglierlo, tornando a respirare senza aiuti artificiali. Nel frattempo ha preso confidenza col macchinario ed è felice di essere vivo.

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