Con questo blog desidero dare la possibilita' a tutti di leggere articoli ,commenti ,interventi che mi aiutano a guardare la realta', a saperla leggere ed essere aiutati a vivere ogni circostanza positivamente. Mounier diceva "la vita e' arcigna con chi le mette il muso" (lettere sul dolore). E' importante saper abbracciare la realta' tutta per poter vivere la giornata con letizia.
martedì 27 febbraio 2007
“CASO CALABRESI”. CARDINAL TETTAMANZI, IMITI SAN CARLO E SANT’AMBROGIO E NON DON ABBONDIO…
Da “Libero” 25 febbraio 2007
Da “Libero” 25 febbraio 2007
Giovanni Paolo II definì il commissario Luigi Calabresi “testimone del Vangelo e eroico difensore del bene comune”. Il cardinal Ruini si mostra benevolente verso don Ennio Innocenti che chiede l’apertura del processo di beatificazione, “Avvenire” dedica al Commissario una bella pagina, dando ormai per aperta la sua “causa”, ma l’arcivescovo di Milano, competente per territorio, non dà il nulla osta. Per paura delle “polemiche” di coloro che dovrebbero invece coprirsi il capo di cenere…
Una vicenda emblematica che riguarda non solo la nostra storia recente (il commissario Calabresi fu la vittima dell’ideologia che avvelena la storia italiana), ma che riguarda anche la sudditanza al mondo di un certo mondo cattolico. E il dovere dei cristiani di mettere prima Dio dell’Imperatore… LA MEGLIO GIOVENTU’ (QUELLA VERA)
di Antonio Socci
Cosa c’entra Luigi Calabresi con questa opaca e avvilente crisi di governo? C’entra per uno scritto inedito che è appena venuto alla luce (lo vedremo) e per una clamorosa notizia che ieri si è curiosamente intrecciata con quelle del Palazzo. Ma prima bisogna considerare la parabola di una generazione, quella Sessantottina, dalla quale vengono i protagonisti di questa spregiudicata contesa di potere cui è ridotta la politica italiana. Dalla lotta di classe al salotto di governo. Pretendono il potere a tutti i costi, con tutti i compromessi di corridoio, ma non intendono rinunciare alla gloria, alla mitologia, alla canonizzazione epica. E al romanticismo della piazza di ieri e di oggi (vicentina o genovese). Perfino Fabio Mussi, oggi ministro dell’Università, rivendica il suo “amarcord” barricadero. L’ha consegnato a “Magazine”. Ha raccontato il primo incontro con Massimo D’Alema in una rissa con “i fascisti” all’Università di Pisa (“ci buttammo nella mischia”), poi ha evocato l’epico “scontro con la polizia”, l’impatto – sempre a Pisa – col tagliente leader di Lotta continua, Adriano Sofri (“un uomo molto duro. Avevamo rapporti tesi”). E pure Mussi ha voluto “aggiustare” la sua biognafia politica dando ad intendere – pure lui – di non essere mai stato comunista: “Chi è entrato nel Pci nel ’68 respirava una suggestione libertaria e anti-autoritaria”.
Insomma a Botteghe Oscure c’era un covo di liberali e libertari e non ce n’eravamo accorti. Il plumbeo Pci di Longo, prono a Breznev, era un allegro circolo di anticomunisti e non l’avevamo capito. In realtà anche il libro – appena uscito – di Andrea Romano, “Compagni di scuola”, intrecciando le biografie degli altri rampolli del Pci di allora (D’Alema, Veltroni, Fassino), racconta un’altra storia e ricorda impietosamente detti e fatti memorabili. L’autore – che è dell’ambiente, è stato collaboratore di D’Alema – traccia un bilancio desolante di questa leva “sessantottina”.
Ma forse c’è pure di peggio. Che dire dei Bertinotti e dei Diliberto – tuttora comunisti, che si baloccano ancora con le piazze e le mitologie guevariane – i quali in queste ore si mostrano i più accaniti nel tenere in vita l’agonizzante governo Prodi pur di non perdere la poltrona e il potere? Secondo le cronache si ricorre al mercato delle vacche parlamentari per sopravvivere: dov’è l’idealismo, dov’è la bandiera dell’ideale senza se e senza ma? E lo slogan, che piace tanto a Bertinotti, “un mondo nuovo è possibile”? Sarebbe questo? Francamente pare il vecchio mondo del potere, delle auto blu e della poltrona. Perfino Raffaele Lombardo – a quanto si legge - andrebbe bene a questa Sinistra pur di restare in sella. E cosa gli hanno offerto? “Quello che si offre in questi casi, poltrone”, spiega impietosamente il politico siciliano.
Il regimetto dei Bertinotti, dei Diliberto, dei D’Alema e dei Fassino non sembra proprio “la fantasia al potere”, ma la fantasia del potere nel conservare se stesso. Un misto di doroteismo, cinismo, spregiudicatezza che – a parer loro – non stride con la rappresentazione che amano dare di sé, favoleggiando di grandi ideali. In effetti gli ex-giovani del ’68 che dominano nella politica, nei media, nel cinema, hanno in mano le leve del discorso pubblico e sono davvero riusciti a rappresentare la propria generazione come “La meglio gioventù”.
Non lo è mai stata e basta ricordare lo sfacelo e l’orgia di violenza che si scatenò dal Sessantotto. Ma il mito romantico della rivolta giovanile ormai è stato imposto dalla pubblicistica e dalla storiografia ufficiale, è il nuovo conformismo, è l’autorappresentazione del potere, è la sua autocanonizzazione. L’arroganza del potere di oggi era già tutta presente nell’arroganza dei “rivoluzionari” di ieri. In realtà se fosse possibile tornare indietro nel tempo, a quegli anni, i veri idealisti dovrebbero essere cercati del tutto altrove. Un bellissimo documento inedito, appena riemerso, ci indica un nome (a lungo infangato): Luigi Calabresi, più noto come “il Commissario Calabresi”, il giovane poliziotto massacrato a 34 anni dalla violenza estremista. Sì, lui davvero era un grande idealista.
In questo suo bellissimo scritto – anticipato ieri da Avvenire – si legge: “Ancora qualche settimana e sarò Commissario di Pubblica Sicurezza. Lo dico perché sappiate in quale mondo sto per entrare con queste mie idee. Ma è una strada che ho scelto per vocazione, perché mi piace, perché sono convinto, perché costituisce una prova difficile. Avrei molti altri modi di guadagnarmi uno stipendio, ma sono affascinato dall’esperienza che può fare in polizia uno come me, che vuol vivere una vita profondamente, integralmente cristiana. Io sono giovane. Ma riandando indietro con la memoria, mi pare che un tempo il metro con cui si valutavano gli uomini era diverso. Si valutavano per ciò che erano, per ciò che rappresentavano, per la posizione e la stima di cui godevano, per il gradino che occupavano nella scala sociale e così via. Oggi invece conta il successo, questa medaglia di basso conio che su una faccia porta stampato il denaro e dall’altra il sesso”. Sappiamo come Calabresi fu accusato dopo la tragica fine di Pinelli, pur non entrandoci affatto. Il linciaggio morale a cui fu sottoposto, a rileggerlo sui giornali della Sinistra del tempo (e a ricordare le piazze di allora), fa spavento. A Giampaolo Pansa confidò: “Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio, non so come potrei resistere”. Anche Enzo Tortora fu testimone di questi fatti e scrisse di Calabresi: “Credeva in Dio, fermamente. Quando una volta gli chiesi, nel periodo più buio delle accuse, degli attacchi, degli insulti, come faceva a resistere, senza mai un cedimento di nervi, senza uno scatto, a quell’autentico linciaggio morale a cui era sottoposto, mi rispose sorridendo: ‘E’ semplice, credo in Dio. E credo nella mia buona fede. Non ho mai fatto nulla di cui possa vergognarmi. E non odio nemmeno i miei nemici; ho angoscia per loro, non odio. E’ una parola – odio – che proprio non conosco’ ”.
Era vero. Calabresi era sempre stato un eroico servitore dello stato, pieno di sensibilità cristiana. E’ nota la foto uscita sul Corriere della sera il 22 novembre 1969 dove si vede il giovane commissario che soccorre Mario Capanna, sottraendolo all’aggressione di alcuni suoi avversari. Poi arrivò l’attentato di Piazza Fontana e il caso Pinelli. Poi arrivò l’assassinio di Calabresi, il 17 maggio 1972. Il suo nome ha continuato a essere un tabù per il pensiero dominante (nessuna sala del Senato gli è dedicata come invece è accaduto per certi “manifestanti”). La generazione del Sessantotto è da tempo al potere e con il potere pretende anche la gloria. Ma la gloria non le spetta. La gloria spetta a un uomo buono e infangato come Calabresi. Morto ammazzato. E la gloria vera. E’ notizia di ieri infatti che il cardinal Ruini ha dato il nulla osta per l’avvio del processo di beatificazione del commissario (la bella pagina di Avvenire di ieri evidentemente preparava questo annuncio). Per decenni né le istituzioni, né i moderati, né i cattolici hanno ricordato quest’uomo. E’ emblematico che la notizia sia uscita ieri mentre andava in scena l’avvilente sceneggiata della Sinistra per tenere le sue poltrone.
Dobbiamo dirlo e forse gridarlo: “la meglio gioventù” fu incarnata da Luigi Calabresi. Ed è giusto che sia la Chiesa a farcelo capire, nel nome di quel Dio che “disperde i superbi nei pensieri del loro cuore, che rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili”. Da “Libero” 24 febbraio 2007
MA TETTAMANZI NON DICE QUEL “SI”…
di Antonio Socci
Dunque il cardinal Ruini non c’entra. Diversamente da quanto annunciava un’agenzia l’altroieri non spetta a lui dare il nulla osta al processo di beatificazione di Luigi Calabresi. Anche se sembra trasparire la sua benevolenza per quella causa e l’ “Avvenire” (molto vicino al presidente della Cei) ha dedicato a Calabresi una bella pagina dove si dà per “avviato” tale “processo di beatificazione”.
Forse è un indiretto “sollecito” a Tettamanzi. Perché in realtà quell’iter non è iniziato: manca il nulla osta dell’arcivescovo di Milano (competente per territorio) che nicchia, tentenna, ha paura. Si può capire il cardinal Tettamanzi. Chi glielo fa fare di avviare agli onori degli altari una vittima oltraggiata come Calabresi, quando il suo nome inquieta la coscienza della Sinistra italiana, di tanti potenti e i prepotenti di ieri e di oggi, perfino di alcuni “padri della patria”. Se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare. Tettamanzi ha il terrore di dispiacere a qualche don Rodrigo di oggi. Così ha giudicato “opportuno” che si debba ancora “attendere” per iniziare la causa del commissario Calabresi. A don Ennio Innocenti, il quale ha raccolto un mare di documentazione sull’ardente cattolicesimo del Commissario, il cardinale ha risposto che l’inizio di questa causa potrebbe “originare polemiche”. Dunque il Paradiso può attendere. Dio anche, secondo il prelato.
E’ vero che l’attuale vescovo di Milano non è mai parso un cuor di leone, ma di quali polemiche ha paura Sua Eminenza? C’è ancora qualcuno oggi che abbia la faccia di sollevare la minima ombra sul commissario Calabresi? In realta' tutti (anche i suoi feroci accusatori di ieri) sanno che è stato un martire innocente a cui non è ancora stato reso l’onore che merita. Che fosse totalmente innocente dalle accuse per cui fu moralmente linciato nelle piazze e sui giornali era evidente anche allora. Oltretutto ad assolverlo completamente nel 1975 dalla morte di Pinelli fu un magistrato al di sopra di ogni sospetto, per i “compagni”, come Gerardo D’Ambrosio (di Magistratura democratica, uomo esplicitamente di sinistra) che poi coordinerà il pool di Mani pulite.
Ma intanto il commissario Calabresi nel 1972 era stato massacrato da alcuni fanatici. E prima aveva subito il più impressionante e corale “linciaggio morale” (come scriveva Enzo Tortora) mai visto nella storia recente. Autorizzare l’inizio del processo di beatificazione del commissario Calabresi, può ancora infastidire? E’ fondato il timore di Tettamanzi di ricordare un passato scomodo ai potenti?
In parte forse sì. Nei giorni scorsi è scoppiata una polemica addirittura per una via da intitolare a Calabresi. Siamo un Paese che è stato avvelenato dall’ideologia dell’odio comunista e sembra non riuscire a disintossicarsi. Gli ex di “Lotta continua”, interpellati ieri dalla Stampa sulla possibile beatificazione del commissario, si cuciono le bocche (qualcuno, al solito, si lascia andare a battute vergognose e “coraggiosamente” anonime). Nessuno attacca, ma nessuno, dopo 35 anni, sembra voler spendere una parola buona per Calabresi. Luigi Manconi, ieri di LC, oggi deputato Ds e Sottosegretario alla Giustizia, risponde: “è inopportuno che mi esprima”. A loro interessa solo la grazia per Sofri (condannato con altri tre per l’omicidio Calabresi). Ma ci sono altri che, con gli anni, si sono apertamente rammaricati di quel passato. Per esempio, una personalità come Paolo Mieli – che ha avuto il coraggio di esporsi e dire tante verità scomode su quel periodo – certamente spiegherebbe oggi all’arcivescovo di Milano che è evidente a tutti la grandezza umana e l’innocenza del commissario Calabresi.
Ma è vero che andare a riaprire l’armadio della memoria (e della vergogna) obbligherebbe molti a un doloroso esame di coscienza. Fra gli ottocento intellettuali (ripeto: ottocento) che firmarono il documento pubblicato dall’Espresso il 13 giugno 1971, dove Calabresi veniva definito (ingiustamente!) “commissario torturatore” e il “responsabile della fine di Pinelli”, oltre al giovane Mieli, troviamo i più attempati Norberto Bobbio, Alberto Moravia, Umberto Eco, Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Furio Colombo, Livio Zanetti, Pier Paolo Pasolini, Lucio Colletti, Carlo Rossella, Toni Negri, Camilla Cederna, Tiziano Terzani, Massimo Teodori, Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta, Federico Fellini, Mario Soldati, Cesare Zavattini, Carlo Rognoni, Bernardo Bertolucci, Liliana Cavani, Luigi Comencini, Carlo Lizzani, Paolo e Vittorio Taviani, Gillo Pontecorvo, Marco Bellocchio, Ugo Gregoretti, Nanni Loy, Giovanni Raboni, Giovanni Giudici, Renato Guttuso, Andrea Cascella, Ernesto Treccani, Emilio Vedova, Carlo Levi, Vito Laterza, Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli, Franco Antonicelli, Lucio Villari, Paolo Spriano, poi Giulio Carlo Argan, Fernanda Pivano, Gillo Dorfles, Morando Morandini,, Luigi Nono, Margherita Hack, Gae Aulenti, Giò Pomodoro, Paolo Portoghesi, Dacia Maraini, Enzo Siciliano, Alberto Bevilacqua, Franco Fortini, Angelo M. Ripellino, Natalino Sapegno, Primo Levi, Enzo Enriques Agnoletti, Lalla Romano, Giorgio Benvenuto, Pierre Carniti, Sergio Saviane, Giuseppe Turani, Carlo Mazzarella, Andrea Barbato, Vittorio Gorresio, Bruno Zevi, Grazia Neri, Franco Basaglia, Carlo e Vittorio Ripa di Meana, Paola Pitagora.
Riportando questo triste elenco nell’ “Eskimo in redazione”, Michele Brambilla ricostruisce l’agghiacciante solitudine di quell’uomo giusto attaccato e infangato da ogni parte. In questi anni sono state raccolti anche molti documenti impressionanti sul cattolicesmo vissuto del giovane Calabresi: “se volessi intascare e magari spendere medaglie come questa (del successo) non andrei in polizia, dove si resta poveri. Non andrei coltivando ideali buffi di onestà e di purezza. Purtroppo sono fatto in un certo modo. Appartengo a un gruppo neanche tanto scarso di giovani che vuole andare controcorrente”.
Poi ci sono molte testimonianze della sua eroica resistenza cristiana alla campagna di odio che subì, della sua fede, della sua capacità di perdono. E’ un grande esempio. E sarebbe bene che il cardinale Tettamanzi non si facesse condizionare dal timore dei potenti.
La diocesi di Milano ha altri processi di beatificazione aperti, come quello su Giuseppe Lazzati, già rettore dell’Università Cattolica, per il quale non si è tenuto conto delle polemiche che eventualmente si possono aprire. Di lui, certo graditissimo al mondo progressista, Tettamanzi si mostrava entusiasta in un discorso tenuto il 6 maggio 2006 al Teatro San Carlo.
Non so, avrà i suoi motivi. Io nelle interviste di Lazzati ricordo un certo rancore. E certe critiche ingenerose che faceva con il suo amico Giuseppe Dossetti a Giovanni Paolo II e a vari movimenti cattolici (questi loro duri “dialoghi” sono riportati nel recente volume “A colloquio con Dossetti e Lazzati” curato da Leopoldo Elia e Pietro Scoppola).
Dice Tettamanzi che avviare per il processo di beatificazione di Luigi Calabresi potrebbe “originare polemiche”. Ma tutti i cristiani che sono stati martirizzati avevano l’ostilità dei poteri di questo mondo. Gesù stesso, dopo la sua esecuzione capitale, era ritenuto un “reo” dai potenti e annunciarne la resurrezione originava molte polemiche. E perfino persecuzioni. Non per questo gli apostoli e la Chiesa hanno taciuto.
cognome, nome e professione) Luigi Calabresi, commissario di P.S., vice responsabile della squadra politica della Questura di Milano.
(luogo e date di nascita) Roma, 14 novembre 1937
(luogo e date dell'attentato) Milano, 17 maggio 1972
(luogo e date di morte) Milano, 17 maggio 1972
(descrizione attentato) Il 17 maggio 1972, alle 9,15 del mattino il commissario Calabresi viene ucciso con dei colpi di pistola sparategli alle spalle mentre sta aprendo la sua auto parcheggiata di fronte la sua abitazione in Largo Cherubini. Lascia la moglie Gemma, due figli ed un terzo nasce pochi mesi dopo la sua morte.
(biografia) Studia al Liceo Classico e si laurea in giurisprudenza con una laurea sulla mafia.
Nel 1965 supera il concorso per vice commissario di Pubblica Sicurezza.
In Questura si occupa della sinistra extraparlamentare: indaga sulla strage di Piazza Fontana. Riceve critiche assai dure nei confronti del suo operato da parte di Lotta Continua e soprattutto per il suo presunto coinvolgimento nella morte di Giuseppe Pinelli, caduto dalla finestra della Questura di Milano durante un interrogatorio nel 1969.
Tre anni dopo la sua morte una sentenza del Tribunale di Milano dichiara Luigi Calabresi innocente per la morte dell’anarchico Pinelli.
(rivendicazione, autori) -
(stato processuale) Nel 1988, l'ex militante di Lotta Continua Leonardo Marino confessa di aver partecipato all’assassinio del Commissario Calabresi e nel 1997 con sentenza definitiva vengono condannati anche Ovidio Bompressi, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani.
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