venerdì 9 febbraio 2007

GRATUITA':LA RAGIONE CHE NON MISURA




Meeting di Rimini,incontro Associazione Famiglie per l'Accoglienza
(amici di giovanni) 22.8.2006
Padre Mauro Giuseppe Lepori (abate del monastero d'Hauterive Friburgo Svizzera
)




Cos’è la gratuita'

Don Giussani diceva che la parola “che caratterizza di piu'(...) ii grande gesto con cui il Mistero ci si è comunicato, che caratterizza la realta' di Cristo tra noi, nel Mistero reso uno tra di noi, è la parola ‘gratuita’. Gratuita', amore senza torna conto, umanamente "senza motivi", senza nessuna ‘ragione’, senza ragioni che la ragione capisce, spiega, senza nessun diritto cui aderire o cui obbedire. Egli è venuto gratis, in questa caritas, in questa carita'.” (Luigi Giussani), Il miracolo dell'ospitalità, 2003, p. 23)
Ripenso al dialogo che ebbi con don Giussani accanto al Vescovo Eugenio Corecco morente. Don Giussani diceva: “E la carità che rigenera l’amore. Il mondo non perdona. La carità ricomincia sempre ad amare. All’inizio del cristianesimo quello che ha convertito ii mondo è stato ii miracolo” Oserei precisare: “Il miracolo e' la carità.” Don Giussani ribatté sorridendo: “La carita' è il miracolo!” (cfr. P. Mauro-G. Lepori., “Offerta: la fecondità incredibile”, in Litterae Communionis-Tracce, maggio 2005, p. 57).
La gratuita' è ii miracolo della carità, è la carità come miracolo. Un po’ come la bellezza, come la bontà, come l’innocenza dell’infanzia, o lo sguardo misericordioso dell’anziano: chi puo' pretendere di possedere l’origine e la fine, cioè la misura, di ciô che è piu' umano nell’uomo, di cio' che piu' corrisponde alla natura del cuore?
Cio' per cui siamo fatti, cio' che piu' ci corrisponde, sfugge alla nostra capacita' di com-prendere, nel senso di afferrare, sfugge alla nostra capacita' di possesso, perché percepiamo in esso qualcosa di infinito, qualcosa che non ha origine e non ha fine, e che pure è, esiste, è dato, ci è dato.

La tentazione di possedere l’infinito


Da bambino volevo afferrare la luce del sole. Uscivo sul terrazzo con una scatoletta di fiammiferi vuota, l’aprivo verso il sole, poi la chiudevo di scatto e, come se non bastasse, correvo in casa per impedire al sole di riprendersi ii tesoro del raggio che gli avevo sottratto.
Il peccato originale ha inserito nella nostra coscienza, o piuttosto nella nostra incoscienza, la convinzione istintiva di dover usurpare quello che piü corrisponde al desiderio del nostro cuore, come se dovessimo strappare dalle mani chiuse di Dio la bellezza, la bontà, la felicità, le cose che sentiamo dovute. E come se l’umanità dicesse a Dio, parafrasando e distorcendo il celebre pensiero di sant’Agostino: “Ci hai fatti per Te, e Ti neghi a noi; e il nostro cuore è inquieto fino a quando non Ti avremo strappato tutto quello che Tu dovresti donarci!”. Ma dicendo questo, l’uomo sottintende ed esprime Il suo disinteresse per Dio stesso. Un padre che ci nega i suoi doni, che ci nega cio' per cui ci ha dato la vita, non ci interessa, non ci attira. Ci interessa 1’ eredita', la parte del patrimonio che ci spetta” (Lc 15,12), ma ii padre non ci interessa, non lo vogliamo. Perché dovremmo? Meglio l’illusione di un raggio di sole rinchiuso in una scatoletta di fiammiferi che ii sole stesso, visto che Il sole non ci è dato, visto che ii sole non vuole darsi a noi.
Tutto il tragico dramma umano è questo, sotto le innumerevoli forme che puo' assumere. Gratta gratta, è sempre questo dramma che si svolge sulla scena del mondo, della storia di tutti e di ognuno. E questo il canovaccio del teatro del mondo, chiunque ne siano i registi e gli attori. E se non si tiene presente questo canovaccio, non si capisce Il dramma della liberta', non si capisce il suo ruolo. E quando non si capisce il dramma e il ruolo della libertà, la liberta' diventa come un attore che ha dimenticato ii copione, che non sa piu' cosa dire e cosa fare; rimane li impacciato, o fa stupidaggini, finché non esce di scena, rovinando se stesso e tutto lo spettacolo.
La società moderna ha talmente perso la coscienza del ruolo della liberta', che tutti gli attori della storia umana, principali o secondari, poco importa, non recitano nient’altro che il teatro dell’assurdo, con risultati comici o tragici a seconda del caso. Ma in questo ambito, è tragico anche essere comici, è tragico soprattutto essere comici, perché la cosa piu' triste in una vita umana e non essere se con la propria libertâ.Che cosa ci salva da quest’alienazione originale, per cui l’uomo si ritrova sempre a voler strappare dalle mani di Dio, e da tutte le altre mani, quello che presume gli sia sempre ingiustamente negato? Cosa ci salva da quest’alienazione che falsa ogni desiderio di possesso, cosi' da trasformare spesso la società in inferno, perché se ognuno vuole strappare per sé le persone e le cose, non rimane altro che una guerra senza fine: “homo homini lupus” (Plauto, Asinaria, 11,4,88)?

Sorpresi dalla gratuità

Ebbene, questa logica, questa alienazione della libertà iniziata in quell’attimo in cui Eva e Adamo strapparono dal giardino l’unico frutto che avrebbero ancora potuto domandare in dono, questa logica s’infrange nel momento in cui Dio cede all’uomo il frutto strappato, nel momento in cui I’uomo si ritrova fra le mani, come un dono totalmente gratuito, quello che si affannava a strappare, quello che si affannava a sottrarre. •Quello che stai strappando con violenza e menzogna dalle mani di Dio, Lui te lo cede. La gratuità di Dio non è solo un dono: è Il dono che non avremmo mai doruto ricevere, il dono che non abbiamo assolutamente meritato, ii dono che sarebbe giusto negarci.La gratuità è una sorpresa, la piu' grande sorpresa che ci possa essere. La gratuità è la sola sorpresa che ci possa essere; tanto è vero che in tutte le altre sorprese — la sorpresa della bellezza, la sorpresa della gioia, la sorpresa della verita', la sorpresa della bontà — è sempre essenzialmente la gratuita' che ci sorprende, nella molteplicità dei suoi riflessi.
Una delle descrizioni piu' toccanti della sorpresa della gratuità proprio mentre stai strappando quello che brami è la scena dei Miserabili di Victor Hugo, là dove il protagonista, l’ex-forzato Jean Vaijean, ruba l’argenteria al Vescovo Bienvenu, la sola persona che lo ha accolto, la sola persona che lo ha guardato con amore. E quando i gendarmi lo arrestano e lo conducono dal Vescovo perché questi lo identifichi e lo denunci, ii Vescovo, tutto raggiante, gli dice: “Ma come! Vi avevo dato anche i candelabri d’ argento (...). Perché non li avete presi assieme alle posate?”
E li che scatta la sorpresa di Jean Vaijean: “Apre gli occhi e guarda il venerabile vescovo con un’ espressione che nessuna lingua umana potrebbe descrivere.” Non c’è linguaggio umano capace di esprimere a parole l’esperienza della gratuità, la sorpresa della gratuità che ti apre gi occhi, che ti apre lo sguardo.
ma ii Vescovo non lascia partire Jean Vaijean senza l’aiuto di un giudizio di verita' che possa iniziare a lavorare nella libertà di quest’uomo abbrutito da 19 anni di ingiusti lavori forzati. Gli dice: “Jean Vaijean, fratello mio, voi non appartenete piu' al male, ma al bene. E la vostra anima che acquisto; la sottraggo ai pensieri bui e allo spirito di perdizione, e la dono a Dio.” (Les Misérables, :,II,12)
non basta un’esperienza forte di gratuità, ci vuole un giudizio che provochi la
libertà ad una nuova coscienza di sé a un lavoro. Ma neanche ii- giudizio basta. II vescovo offre per sempre a quest’uomo la sua compagnia, la sua famigliarità:
“Jean Vaijean, fratello mio!”. In altre parole, lo accoglie nella sua vita, lo adotta, e questa accoglienza, questa adozione paterna, è contemporaneamente esperienza sorprendente di gratuitá e giudizio di verita' che provochi la libertà a crescere. Se qualcuno non ti accoglie, se non ti è donata una compagnia, una paternità, la sorpresa de1a gratuità diventa un nostalgico ricordo, come l' aver fatto un bel sogno. Invece, se ti è donata una compagnia, la gratuità permane e matura nell’appartenenza' un’appartenenza senza fine che ti libera e si compie gia' fin d’ora nell’eterno, nel destino ultimo della vita: “Sottraggo (la vostra anima) ai pensieri bui e allo spirito di perdizione, e la dono a Dio.”
Questo non vuol dire che uno Si converte subito, che uno cambia d’un colpo.
Victor Hugo, che anche lui non era uno stinco di santo, subito dopo la scena di quest’incontro travolgente con la gratuita'del vescovo, descrive la caduta di Jean Vaijean nella piu' meschina e assurda azione di appropiazione indebita che si possa immaginare: ruba un soldo a un bambino mendicante, lui che ha nella sua borsa tutta l’argenteria donatagli dal Vescovo!
Ma è proprio l’imbattersi con questa sua assurda e meschina sete di
appropriazione che fa sgorgare finalmente in lui la sorgente del pentimento, le lacrime, la sete del perdono, la sete di quella gratuita' che non ti dà solo oro e argento, ma la misericordia di Dio. Dopo una notte di delirio e di lacrime disperate, la scena si chiude su un Jean Valjean in ginocchio davanti alla porta della casa del Vescovo, come ii figlio prodigo tornato finalmente a mendicare il perdono del Padre. Solo a partire da quel momento diventa un uomo nuovo, un uomo che dona tutta la sua vita, come il Vescovo che nella gratuità lo ha generato.
Non c’è nulla di piü grande della gratuità. La gratuita' non puô produrre altro che gratuità. Ma la differenza è nel soggetto che la esprime. La gratuità di Dio non puô provocare qualcosa di piü grande di se stessa. Non c’è nulla di piü grande dell’infmito. Ma la differenza, o se vogliamo il “di piü” rispetto alla gratuità infnita di Dio, sta nella possibiità che la gratuità di Dio diventi gratuità nostra, che la gratuità di cui siamo oggetto diventi gratuita' di cui siamo soggetto, cioè che la gratuita' di Dio investa la nostra Iibertà.


“Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!”


Al momento di mandare in missione i suoi dodici apostoli, Gesu' pronuncia quello che viene definito il suo “discorso apostolico”, cioè le istruzioni che varranno per tutta la missione della Chiesa fino alla fine dei tempi. E in questo discorso Gesu'
da' agli apostoli un precetto essenziale: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!” (Mt 10,8).
In questa frase è espresso tutto ii mistero di Dio e tutto ii mistero dell’uomo,
perché in questa frase è sintetizzato 1’ incontro fra la liberta' di Dio che è amore infmito e la libertà dell’uomo, creato per essere immagine e somiglianza di questo Dio infinitamente amante.
Tutto ii dramma della libertà di Dio e della liberta' dell’uomo è in queste quattro parole: “Gratis accepistis, gratis date”. Ii dramma della libertà di Dio è la libertà dell’uomo che Egli sceglie di creare appunto per renderla interlocutrice della Sua infinita gratuità. Dio non chiede nulla all’uomo, e chiede tutto, perché quello che chiede è l’accoglienza responsabile di una gratuità assoluta e sovrabbondante. Il “dare gratuitamente” da parte dell’uomo non puo' mai eccedere la gratuità di Dio, non puo' mai emergere dall’infinito mare della carita' trinitaria. Eppure, la possibilità del rifiuto, la possibilità di sottrarre la liberta' a questa infmita gratuità, è l’incredibile facoltà che all’uomo è data di “eccedere” diabolicamente la gratuità di Dio. La creatura non potra' mai sottrarre ii suo essere alla gratuita' divina, senza la quale sarebbe immediatamente annientata e svanirebbe nel nulla, ma alla creatura è data la possibilità di sottrarre ad essa la liberta'. La libertà della creatura ha la possibilità di sottrarsi all’amore dal quale Il suo essere non puo' non dipendere.
Pero' questa assurda, diabolica, infernale possibilità, è l’immagine negativa di una vocazione sublime, che dovrebbe riempirci di stupore ogni mattina, ad ogni istante di coscienza di noi stessi. Perché la frase: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!” è una chiamata ad imitare Dio, a corrispondere a Dio, ad essere come Dio. E una chiamata, cioè una vocazione. E la vocazione fondamentale dell’uomo, di ogni uomo, anche del piu' disgraziato. E' la vocazione fondamentale iscritta nel cuore dell’uomo, nel desiderio del cuore, la chiamata ad essere immagine e somiglianza di Dio; la chiamata ad essere immagine di cio' che in Dio è infinito: l’amore gratuito, la carità.
Come lo ricordava il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes: "l’uomo, ii quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa, non puo' ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé." (par 24).
Gesu' dunque, mandando i suoi discepoli ad evangelizzare il mondo, dà loro la chiave e ii fondamento per interpellare la libertà di tutti, vivendo loro per primi, con yerita', la loro libertà. Non è strappando ii frutto proibito che l’uomo si rende simile al Creatore, ma vivendo una gratuità originata e alimentata continuamente
dall’infinita gratuità di Dio.


‘Rallegrati, piena di grazia!”


Questa chiamata, questa vocazione, che gil apostoli e tutti I cristiani faranno sempre fatica ad accogliere con totale disponibiita', questa chiamata Maria l’ha capita e accolta subito, aderendovi totalmente col suo cuore senza ombre, senza calcolo. All’annuncio dell' angelo, è proprio la gratuita' eterna della Trinità che investe la Vergine. “Rallegrati, o piena di grazia!” (Lc 1,28), rallegrati, tu che sei stata e rimani colmata dalla gratuita' di Dio. E quando Maria capisce che quello che è in gioco è solo la grazia, la gratuita' senza misura di Dio, non fa altro che aderire, non puo' far altro che aderire a questa gratuità, ai suoi disegni
incomprensibili, alla sua onnipotenza senza limiti. La gratuita' di Dio che dona a sua cugina Elisabetta una fecondità impossibile, la gratuità che si esprime nel miracolo, è veramente la ragione che non ammette misura o calcolo. Ogni possibilita' di riserva di fronte al disegno gratuito di Dio, ogni possibilita'd'opposizione, di esitazione, sarebbe una irragionevole meschinita', una grettezza senza ragioni, senza fondamento, come il gesto di Jean Vaijean di rubare un soldo al bambino mendicante. Di fronte alla gratuita' totale, ii rifiuto è condannato a non avere altra ragione che se stesso, come il rifiuto di Satana: un puro “no” di fronte alla gratuità totale di Dio, un “no” senza altra ragione che la negazione del gratuito.
Maria avrebbe potuto rifiutare come Lucifero, perché era libera. Non lo fa, ed esprime cosi' l’atto di piu' pura ragionevolezza di tutta la storia umana. Non esiste e non puo' esistere un atto piu' ragionevole dell’acconsentimento di Maria all’annuncio dell’angelo. Anzitutto perché Maria, intuendo che l’angelo interpella la sua liberta', domanda le ragioni che le permettano di consentire totalmente, che le permettano di poter dire di si, non ad una teoria, ad un progetto, ma ad un avvenimento: “Come puo'avvenire questo? Non conosco uomo.” (Lc 1,34). Ma il suo acconsentimento è totalmente ragionevole soprattutto perché la ragione che l’angelo le fornisce è il fondamento assoluto, è la ragione di tutte le ragioni:
la gratuità onnipotente di Dio, origine, consistenza e fine di ogni creatura e di ogni avvenimento.
Tutta la ragionevolezza di Maria sta nel chiedere le ragioni dell’avvenimento e nel consentire alla ragione che è ii fondamento di tutto. Si è ragionevoli quando si chiede e si accoglie la ragione ultima a cui la libertà deve aderire. Per questo mai nessuno sara' piu' ragionevole della Madonna, nessuno avrà usato la ragione meglio e piü di quella ragazza di Nazareth.
Ma la ragionevolezza della liberta' di Maria non si limita all’aspetto teorico a cui
noi spesso riduciarno l’uso della ragione. La ragionevolezza di Maria si esprime nell’uso della sua libertà totalmente corrispondente alla natura della ragione che 1’ angelo le ha esposto. Maria infatti capisce che se la ragione è la gratuita' assoluta di Dio, l’acconsentimento deve prenderla tutta. Tanto è vero che Maria non dice: “Eccomi, avvenga quello che hai detto”, ma: “Eccomi, avvenga di me quello che hai detto!”. Vale a dire: se la ragione è la gratuità totale di Dio, allora che mi prenda tutta, che non mi riservi nulla, perché è irragionevole sottrarre anche solo una molecola di sé all’Amore infinito senza il quale io non sarei nulla!
In quell’“Avvenga di me!”, c’è tutta la Madonna, c’è tutta la vocazione della Madonna, tutta la sua verginità e tutta la sua maternità. Ma dobbiamo percepire come quel “Fiat mihi!" quell’"Avvenga di me!", sia nel cuore della Vergine un’esultanza di dono di sé, uno scoppio di dedizione, che hanno la forma sostanziale della gratitudine. E' proprio un darsi senza misura alla gratuità senza misura del Signore: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!”
Quell’“Avvenga di me!”, Ia Chiesa ce lo mette costantemente di fronte agli occhi e nella memoria, perché li è l'ideale, il modello, il compimento di ogni vocazione, di ogni corrispondenza della vita al disegno gratuito di Dio. Nell’“Avvenga di me!” è compresa la dedizione della verginità come la fecondità della vocazione famigliare, la consacrazione pastorale del sacerdote come quella del laico chiamato a santificare il mondo. Non c’è ragionevolezza piu' grande di quel moto della libertà che risponde alla gratuità di Dio dicendo: “Eccomi, prendimi!”.


Accoglienza: forma della gratuità


“Avvenga di me!” E' bello vedere come il darsi gratuitamente e totalmente alla gratuità che ti sceglie, in Maria prende subito la forma dell’accoglienza, dell’accoglienza della realtà che qui ed ora interpella col suo bisogno. Per questo Maria va ad accogliere Elisabetta, va a farsi prendere dal bisogno di Elisabetta. L’accoglienza è sempre una dimora per ii bisogno dell’altro, anche se vai ad esercitarla nella sua casa. Sia che tu accolga in casa tua, sia che tu vada a prenderti cura dell’ altro in casa sua, sei tu che diventi dimora per l’ altro. Perché l’accoglienza, prima di essere una questione di luogo o di strutture, è una decisione del cuore, una concezione di sé, della propria persona.L’accoglienza diventa cosi' risonanza dell’accoglienza di Dio, e per questo diventa un bisogno, un desiderio, una risposta grata. San Paolo esprime questo in due parole invitando i fedeli di Roma ad essere “premurosi nell’ospitalitã” (Rm 12,13). Si tratta di avere premura di accogliere, di affrettarsi ad accogliere. Come Maria che “in fretta” va da sua cugina (Lc I ,39), perché ha premura, perché arde dal desiderio di veder coinvolta tutta la sua persona nella gratuita’ di Dio che l’ha investita, eletta.
E’ bello il termine “premura” perche’ congiunge il senso dinamico della fretta alla dimensione dell’attenzione, della cura attenta. La premura e’ una fretta che si ferma, e’ una fretta di fermarsi. Maria si e’ messa a pulire la casa, a fare il bucato, a preparare da mangiare per Elisabetta e Zaccaria con premura. Ogni suo gesto veicolava nell’istante tutta la gratuita’ di Dio a cui aveva per sempre aperto il cuore: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!”

La ragionevolezza della fede E’ importante pero’ capire che la ragionevolezza di Maria nel corrispondere alla gratuita’ infinita del Signore diventa vita, opera, incontro, servizio, accoglienza, se e’ portata dalla fede, nella sua risonanza psicologica che e’ la fiducia. La fiducia e’ l’espressione della fede che impedisce alla psicologia, al sentimento, di sottrarsi alla totalita’ di se stessi che ragionevolmente e’ dovuta al disegno gratuito di Dio.

Tutti i miracoli di Gesu’ chiedono la fede. Gesu’ richiama i discepoli a ricordarsi dei miracoli come ragione della fiducia totale in Lui. Cristo chiede ai suoi discepoli la fede come unica ragionevole posizione di fronte alla gratuita’ totale di Dio che in Lui si manifesta ed entra nella nostra vita.
E’ significativo il richiamo energico che Gesu’ fa ai discepoli un giorno che erano preoccupati di aver dimenticato il pane: ” ‘Perche’ discutete che non avete pane? Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate, quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via?” Gli dissero: ‘Dodici’. ‘E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via?’ Oh dissero: ‘Sette’. E disse loro: ‘Non capite ancora?’.” (Mc 8,17-21).

“Non intendete e non capite?”. La fede non e’ un limite alla ragione, ma la sua apertura all’infinito, che vuol dire anche apertura infinita, nel senso che la ragione che si apre all’infinito non si chiude piu’ su una propria misura, su una limitazione di se stessa. E l’infinito che sta davanti alla ragione dei discepoli di Cristo, di chi incontra Cristo, e’ il miracolo, il miracolo come manifestazione nel tempo della gratuita’ infinita dell’amore di Dio all’uomo. Il miracolo e’ un’emergenza straordinaria di una Provvidenza che impregna tutta la realta’, perche’ tutta la realta’ ha origine, fine e consistenza nella gratuita’ totale, essenziale, della Trinita’. Tutto e’ miracolo per la ragione che si abbandona alla misura del gratuito. Pensiamo solo al Cantico di frate sole di San Francesco. Il santo vede il miracolo nel sole, nella luna, nelle stelle, ma anche nell’ acqua, nella terra, nell’erba. Ogni filo d’erba e’ miracolo se la ragione lo riconosce creato senza altra ragione che l’amore gratuito di Dio.

La dissociazione fra la capacita’ di amare e l’anelito all’infinito

Siamo sempre tentati di calcolare, di misurare la gratuita’, di misurarla per padroneggiarla, per dane un limite, cosi' da poterla contenere nelle nostre mani, nei nostri progetti, nella misura del nostro interesse. Come quando Pietro chiede a Gesu’: “Signore, quante volte dovra’ perdonare a mio fratello (...)? Fino a sette volte?” (Mt 18,21).
Si, siamo proprio sempre tentati di sottrarre l’amore all’esigenza dell’infinito che costituisce il nostro cuore e la nostra ragione. Il nostro cuore e’ fatto per amare, ed e’ esigenza di infinito, ma noi, e’ come se dissociassimo le due dimensioni, dissociamo l’infinito dall’amore, e cosi’ l’esigenza di infinito del nostro cuore la riduciamo ad anelito sentimentale, romantico, o intellettualistico, al massimo ad una fredda spiritualita’ senza amore.

Perche’ operiamo questa dissociazione fra la capacita’ di amare e l’anelito all’infnito? abbiamo paura di essere presi. Se l’amore e l’infinito coincidono, allora dobbiamo perderci in esso, dobbiamo entrare in esso, lasciarci prendere. Non siamo piu’ noi che teniamo l' amore, ma e’ l’amore che ci prende. “Non ti dico [di perdonare] fino a sette, ma fino a settanta volte sette.” (Mt 18,22) Non e’ necessario fare la moltiplicazione: settanta volte sette e’ la misura simbolica dell’infinito. Gesu' domanda a Pietro di non distribuire il suo perdono come le caramelle, ma di nuotarci dentro, di lasciare che il perdono di Dio trabocchi dal suo cuore come una sorgente. Ma per capirlo, Pietro dovra’ aver bisogno di essere perdonato Lui, perdonato da Cristo morto in croce per lui e risorto. E questo impatto con la gratuita’ totale dell’avvenimento di Gesu’ Cristo, se magari non cambiera’ subito tutto il suo comportamento, rivoluzionera’ la concezione che Pietro avra’ di se stesso. Perche’ e’ questo il punto essenziale che cambia la vita: la conversione della concezione di noi stessi alla luce dell’amore di Cristo.

E’ questa conversione che Gesu’ risorto annuncia a Pietro dopo avergli chiesto tre volte se Lo amava: “in verita', in verita' ti dico: quando eri piu’ giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi [cioe', ti definivi tu, eri definito da te stesso, dal tuo sguardo su di te, e questo determinava le tue decisioni, le tue scelte, il tuo rapporto con la realta’; cioe’ eri istintivo e possessivo, e la tua identita’, la tenevi stretta nelle tue mani, come la veste che uno si sta mettendo e che si aggiusta da se]; ma quando sarai vecchio tenderai le mani, e un altro ti cingera’ la veste e ti portera’ dove tu non vuoi.” (Gv 21,18). Quando sarai maturo, la concezione di te stesso, la definiro’ tutta Io, sara’ tutta determinata dall’appartenenza a me, a me verso cui tenderai le mani vuote, tese, non piu’ irrigidite dal possesso di te stesso e della realta’. Avrai un rapporto cosi’ gratuito con te stesso, con la tua vita, da lasciarti portare alla morte per me, al martirio, al dono totale e gratuito di te stesso. Allora glorificherai, come me, il Padre: “Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio.” (Gv 21,19)
Ma come avviene questa conversione dello sguardo su di se’ e del rapporto con la propria vita? La risposta e’ semplicissima, e’ la stessa indicazione che, ogni papa’ e mamma danno e ripetono ai loro bambini: “E detto questo [Gesu’] aggiunse: ‘Seguimi!’ .“ (Gv 21,19). “Seguimi!”, stammi dietro, stammi attaccato, tienimi per mano, rimani con me, rimani nella mia compagnia. E’ solo questo che fa crescere la gratuita’, la carita’, nel cuore, nella vita, nei rapporti e quindi nel mondo.

L’autocoscienza di Cristo


Ma quando Cristo ci dice “Seguimi!” per condurci ad una coscienza di noi stessi tutta diversa da quella determinata dalla nostra istintivita’ e possessivita’, di fatto non fa altro che condurci verso la coscienza che Lui ha di se stesso.

Nell’ inno cristologico che san Paolo ci trasmette nel secondo capitolo della lettera ai Filippesi, un’ espressione forte e schietta tradisce la coscienza che la comunita' cristiana primitiva aveva della novita’ di concezione di se’ e del reale apparsa nel mondo con Cristo crocifisso: “Cristo Gesu’, pur essendo di natura divina, non considero’ un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spoglio’ se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini” (Fil 2,6-7).

“Non considero’ un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio”. Letteralmente questa frase dovrebbe essere tradotta cosi’: “Non considerô come una preda da afferrare [in latino: rapinam] la sua uguaglianza con Dio”.

Incarnandosi, Dio va radicalmente contro la corrente del possesso del reale come strappo, come rapina, che l’uomo ha scelto e subito dal peccato originale in poi. Ma questa posizione di fronte alla realta’, in Gesi non e’ solo una scelta, un’opzione, un comportamento, una moralita’: e’ la sua identita’. “Non considera come una preda da afferrare la sua uguaglianza con Dio”: e’ la sua uguaglianza con Dio che e’ in gioco, e’ la sua divinita’, e’ cio' che Egli e’ che Cristo non considera come qualcosa da depredare, da sottrarre al Padre. Questa espressione rivela la coscienza che Gesu’ aveva di se’. Gesu’ era cosciente di essere uguale a Dio, di essere Dio, Figlio del Padre, Uno della Trinita’, ma incarnandosi, morendo in Croce, ha dimostrato anche in quanto uomo di non considerare questo un possesso da strappare a Dio. Nulla Cristo vuole possedere come rapina, al punto da rifiutare di possedere come preda, come possesso geloso, la sua stessa inalienabile divinitã. La sua uguaglianza con Dio, Cristo non Ia deve afferrare come u.na preda, non la deve rapinare, perche’ Gli e’ data, e’ da sempre e per sempre, dal profondo dell’infinita ed eterna gratuita’ trinitaria. Ma la novita’ e il paradosso stanno nel fatto, nell’avvenimento, che Dia’ in Cristo si fa cosl realmente uomo che e’ come se rinunciasse alla sua natura divina. L’inno di Filippesi 2 continua cosI: “Spoglio’ se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliô se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce.” (Fil 2,7-8)
Ma e’ appunto questo spogliarsi di se’, di cio’ che Cristo e’ per natura inalienabile, che rende ancora piu’ esplicito il suo possesso gratuito di se’ e di tutto. E’ rinunciando a possedere come rapina, come una realta’ strappata ad altri, la sua uguaglianza con Dio che Gesu’ grida con tutto se stesso, e non soltanto come filosofia o come morale, la legge dell’essere, la natura della realta’ tutta, increrata e creata: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!”. L’essere e’ ricevuto gratuitamente, l’essere e’ dato, e tutto rimane nell’essere se non lo si sottrae al dono, al darsi, al darsi gratuito.

Questo criterio, questa ontologia, e’ il Vangelo, l’annuncio di Cristo, la novita’ annunciata da Cristo e trasmessa agli apostoli, alla Chiesa, al mondo. Un Vangelo che non e’ solo parola, ma vita, e che va annunciato con la vita. Per questo Gesu’ mette in guardia i suoi discepoli dal “lievito dei farisei, che e’ l’ipocrisia” (Lc 12,1). Perche’, cosa nasconde l’ipocrisia dei farisei? Appunto la rapina, cioe’ quel rapporto con la realta’ che ne usurpa il possesso invece di accoglierlo e trasmetterlo come un dono. “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno della coppa e del piatto mentre l’interno e’ pieno di rapina e di intemperanza!” (Mt 23,25). Analogamente, Gesu’ mette in guardia “dai falsi profeti (...) in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci” (Mt 7,15); questi falsi profeti che, oggi come sempre, annunciano l’amore, la pace, la solidarietã coi poveri, il rispetto della natura, il primato della spiritualita’, ma che dentro hanno la radice della rapina, cioe’ il progetto di negare la gratuitã ultima deli’ essere, [‘irriducibilita’ ultima dell’essere ad un progetto di potere finalizzato a se stesso.

Per questo Cristo fa di tutto per purificare i suoi discepoli da questa radice malsana. Lo fa con le parole, ma soprattutto lo fa manifestando se stesso, il suo stare in mezzo a loro come servo, come ultimo, che non afferra nulla come preda, neanche se stesso. Gesu’ si lascia afferrare, subisce fino in fondo la rapina dei peccatori, fino a che l’uomo rapinatore, trovandosi fra le mani la preda che si dona mentre è strappata, possa arrendersi alla sorpresa della gratuita’ totale dell’ essere.

Nessuna rapina umana puo’ vincere la gratuità di Cristo. Lo afferrano, Lo legano, Lo inchiodano alla Croce, Lo uccidono, Gli strappano la vita, e Lui, attraverso tutto ciô, si dà gratuitamente, in totale libertà. “La mia vita, nessuno me la toglie, ma la do da me stesso.” (Gv 10,18).

Il brigante, il rapinatore, Barabba, è preferito a Colui che dà la vita. La gratuita’ sembra perdente, sembra perduta. Ma e’ proprio perdendo, perdendosi, che vince, cioè che si afferma, che e’ tutto.
Per questo, ogni uomo che fin dal peccato originale e’ rapinatore, ladro del reale, predatore delI’essere, e’ chiamato a lasciarsi donare gratuitamente quello che tutta la sua vita voleva rapinare: la pienezza, il possesso della vita, il compimento di se’, la felicita’, la divinita’: “In verita’ ti dico: oggi sarai con me nel paradiso!”, dice Gesu’. A chi? A un ladro (Lc 23,43)!

Una nuova corrente nella storia del mondo


E’ da qui, da questa vittoria della gratuita’ di Cristo sulla rapina deil’uomo, e’ da questa grazia di possedere gratuitamente, e al centuplo, cio’ che tutto il mondo vuole vanamente afferrare, che parte la presenza e l’annuncio della Chiesa nel mondo, la missione apostolica, la missione eucaristica della Chiesa, perche’ celebrare l’Eucaristia e’ un lasciarsi donare gratuitamente, con azione di grazie, tutto cio’ che Adamo voleva afferrare.La Chiesa è un popolo di briganti convertiti dalla gratuità di Cristo, convertiti alla gratuità di Cristo.
Questa consapevolezza, sorpresa e generata dal dono dell’avvenimento di Cristo, diventa nella storia come una sorgente nuova, o piuttosto come una corrente nuova della grazia che sgorga dalla gratuita’ di Dio, dal Cuore trafitto. E’ come se un fiume si mettesse a scorrere nel tempo, nella storia, in tutti gli ambiti della vita, risanando ii mondo dalla decadenza del peccato e della morte.
Si realizza letteralmente la visione di Ezechiele (47,1-12): quella dell’acqua che sgorga dal lato destro del Tempio e che piu’ scorre verso ii mondo, e piu’ diventa un grande flume che rende la terra feconda e va a risanare le acque del mare. E l’ angelo che accompagna il profeta commenta: “Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il flume, vivra’: il pesce vi sara’ abbondantissimo, perche’ quelle acque, dove giungono, risanano, e la’ dove giungera’ il torrente tutto rivivra’.” (Ez 47,9).

Questo flume e’ quel popolo di uomini e donne i quali, sorpresi dalla grazia, si convertono sempre di piu’ dalla logica della rapacita’ alla logica della gratuita’. Cosi’, ovunque passano, ovunque vivono, risanano e ridanno vita all’umanita’ e comunicano una fecondita’ straordinaria al mondo umano. La famiglia, il lavoro, 1’ educazione, il divertimento, la malattia, la morte: tutto e’ risanato da questo fiume di gratuita’ personale attinta alla gratuita’ di Dio che sgorga dal lato destro
del Santuario, cioe’ dal Cuore trafitto di Cristo crocifisso e risorto.

La lotta fra don Rodrigo e padre Cristoforo




Cosi’, nel dipanarsi della storia e dell’avventura dell’umanita’, se c’e’ una contrapposizione, una lotta, nel cuore dell’uomo e fra gli uomini, e’ quella fra chi continua a voler strappare il frutto della pienezza della vita, e chi, raggiunto dalla gratuitâ misericordiosa di Dio in Cristo, comincia a “scorrere” nel tempo e nella realta’ concependo se stesso e la vita come un dono, come un donare
gratuitamente quello che si riceve gratuitamente.

Penso alla contrapposizione fra don Rodrigo e padre Cristoforo ne’ I Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Ilprimo incarna l’uomo che vive per rapinare il possesso della realta’, che domanda alla rapina la pienezza della vita, la felicita’. Padre Cristoforo, invece, convertitosi da questa logica il giorno in cui ne ha visto la disumana assurdita’ (cfr. Cap. 4), e alimentandosi costantemente al perdono ricevuto da Dio e dagli uomini (il “pane del perdono” che conserva per tutta la vita, simbolo del suo alimentarsi eucaristico alla misericordia infinita di Dio), padre Cristoforo vive nel possesso verginale della realta’ e dei rapporti che e’ un donarsi eroico fino alla fine.

Sullo sfondo di tutto il romanzo, sotto le molteplici vicende vissute dai protagonisti, la sfida fondamentale mi sembra quella fra la bramosia rapace di don Rodrigo e la carita’ oblativa di padre Cristoforo.

Alla fine, vince la carita’. Vince anzitutto e essenzialmente nello sguardo. La descrizione dello sguardo di padre Cristoforo mentre consuma I suoi ultimi giorni al servizio degli appestati nel lazzaretto, e’ uno dei ritratti piu’ profondi e geniali di tutto il romarizo, e forse di tutta la letteratura: “L’occhio soltanto era quello di prima, e un non so che piu’ vivo e piu’ splendido; quasi la carita’, sublimata nell’estremo dell’opera, ed esultante di sentirsi vicina al suo principio, ci rimettesse un fuoco piu’ ardente e piu’ puro di quello che l’infermita’ ci andava a poco a poco spegnendo.” (Cap. 35).
Che contrasto con l’ultimo ritratto di don Rodrigo, agonizzante nello stesso lazzaretto! “Stava 1’ infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l’avreste detto il viso d’un cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d’una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando, con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno stringere adunco delle dita, livide tutte, e sulla punta nere.” (ibid.).

Si, che contrasto fra lo sguardo di padre Cristoforo, lo sguardo pieno di carita’ ardente, vivo e splendido, che vince la morte, e gil occhi “senza sguardo” di don Rodrigo che sembrano inabissarsi nella morte come nel nulla! E mentre le mani di padre Cristoforo continuano a donare, a benedire, a rimanere aperte e tese, la mano di don Rodrigo sembra anchilosata nel gesto di afferrare, “con uno stringere adunco delle dita”. Chi vive stringendo a se’ la realta', nell’affannosa brama del possesso, alla fine, quando comunque ogni realta’ ti e’ tolta, strappata, continua a stringere il nulla, come per possedere almeno la morte.
Viviamo in una societa’ di rapinatori del reale, di rapinatori dell’umano, di rapinatori della sete d’infinito che abita il cuore dell’uomo. Certo, guardando questa societa’, questa cultura e le sue espressioni piu’ prepotenti, ci sembra che il vincitore sia don Rodrigo. La rapacita’ di questa cultura contro la vita, contro l’amore gratuito, contro la dignita’ inalienabile della persona, contro l’educazione alla liberta’, sembra vincere con facilita’ estrema e incontrastata, persino dentro di noi, nel nostro cuore, nei nostri giudizi, nei nostri desideri e nelle nostre paure. Questa cultura della rapacita’ sembra vincere piu’ e meglio di realta’ come “Famiglie per 1’Accoglienza”. Ci sentiamo proprio mandati “come pecore in mezzo ai lupi” (Mt 10,16)...

Eppure, alla fine, vince la carita’. Ma la vittoria della carita’ non e’ una vittoria che sconfigge il nemico. Padre Cristoforo non trionfa di don Rodrigo. Lo vince amandolo, desiderando fino alla fine che si salvi, che il suo sguardo si riapra, almeno un istante, per accogliere la gratuita’ del perdono. Dice a Renzo che ha condotto davanti al suo nemico, davanti all’uomo che voleva rapirgli la sposa:
“Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione... d’amore!”. E Renzo prega con padre Cristoforo per la salvezza di don Rodrigo.

E questa Ia vittoria della carita’. La vittoria della carita’ e’ la misericordia, il perdono.Come scrive Dante della divina volonta’ che, “vinta, vince con sua beninanza” (Paradiso, XX,99).

E’ lo sguardo che perdona, l’espressione suprema della ragione che vince il male abbracciando tutto l’essere senza rinchiuderlo in una propria misura.

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