sabato 3 febbraio 2007

DIVO BARSOTTI ESEGETA DI LEOPARDI E DI DOSTOEVSKJ

Al centro del mondo dostoevskiano dunque c’è «l’uomo, e nell’uomo si fa presente il mistero stesso di Dio. La vita dell’uomo è lo scontro del male e del bene; il problema del male e la concezione del bene dominano tutti i romanzi, e il bene e il male suppongono la libertà, postulano Dio» (p. 143). In Dio c’è la vita e la pace, senza Dio c’è la disgregazione e la rovina

DIVO BARSOTTI
Esegeta di Leopardi e di Dostoevskij
FERDINANDO CASTELLI S.I.

Il 15 febbraio dello scorso anno è morto don Divo Barsotti nella «Casa S. Sergio» di Settignano (Firenze), dove ha sede la Comunità dei Figli di Dio da lui fondata (1). Nato a Palaia (Pisa) nel 1914, dopo l’ordinazione sacerdotale (1937) ha svolto la sua attività pastorale a Firenze, accanto a personalità quali il card. Elia Della Costa, Giorgio La Pira, p. Ernesto Balducci, mons. Enrico Bartoletti. Teologo, studioso di spiritualità e di mistica, attento ai problemi intellettuali e pastorali del momento, ha scritto volumi originali, densi di afflato spirituale e di cordiale approfondimento del mistero cristiano (2). Non si dimentichi la sua amicizia e frequentazione con H. U. von Balthasar, J. Daniélou, H. de Lubac, Th. Merton.
Don Barsotti è stato anche un assiduo e appassionato cultore di letteratura e di poesia. Vogliamo ora ricordarlo come esegeta di Leopardi e di Dostoevskij, ai quali ha dedicato uno studio originale e intenso: La religione di Giacomo Leopardi e Dostoevskij. La passione per Cristo (3). Due motivi ci hanno indotto a questa scelta. Il primo è una sua affermazione: «Penso che la teologia dovrebbe dare più spazio alle lettere, perché è nelle lettere, cioè nella narrativa e nella poesia, che meglio si esprime l’esperienza religiosa. È lì che si manifesta più vivamente la lotta dell’uomo con Dio, e non importa se a volte si esprime negativamente. Il teologo è spesso alle prese con i concetti, e c’è quindi il pericolo di un certo formalismo che non dice più niente a nessuno» (4). Il secondo motivo è la nostra persuasione che, presentando Leopardi e Dostoevskij, don Divo presenti se stesso in alcuni momenti della sua vita e in alcuni aspetti della sua personalità di uomo e di credente.
Desideri immensi in un vuoto di speranza
È lecito parlare di religione — cioè di rapporto con Dio — nell’opera di Giacomo Leopardi? Non è, egli, l’assertore del nulla? dell’«infinita vanità del tutto»? Non ha sottoscritto, nella lettera a Luigi De Sinner, del 27 maggio 1832, l’affermazione che «è assurdo attribuire ai suoi scritti una tendenza religiosa»? Sfidando le apparenze e certi luoghi comuni, Divo Barsotti ha scritto il citato volume La religione di Giacomo Leopardi: una paziente e diligente carrellata sull’opera di Leopardi, vergata all’insegna della simpatia e della comprensione.
In essa si leggono queste affermazioni: «Negare la religione del Leopardi è negare la sua poesia. La sua poesia è religione più della poesia di Manzoni, più della poesia stessa di Dante. In lui la dimensione religiosa è più pura; l’impegno religioso, assoluto» (p. 18); «Tutto il suo cammino è ricerca del vero Dio» (ivi); «Manzoni, certo, è più cristiano; ma Leopardi è più religioso. La sua poesia è essenzialmente religiosa» (ivi).
Per comprendere queste affermazioni occorre precisare il significato che Barsotti dà al termine religione nel contesto del suo volume: in esso religione non significa principalmente un complesso di credenze e di pratiche relative a cose sacre; significa sentimento naturale, intenso, insopprimibile, che induce l’uomo a superare la dimensione del sensibile e del temporale e percepire l’esistenza di una realtà superiore per trovare in essa la risposta ai più radicati dilemmi dell’animo umano: senso della vita e della morte, bisogno di verità e di amore, ansia di purezza e d’infinito.
Chi è il Leopardi che Divo Barsotti incontra sul proprio cammino e del quale cerca di comprendere il dramma esistenziale? È un’anima «tesa da desideri immensi» ma priva di speranza; dominata da un bisogno d’infinito ma condannata a muoversi su sentieri squallidi e circoscritti, coperti di foglie morte; è «il poeta di una giovinezza che non ha conosciuto e di un amore che non ha mai trovato chi amare» (p. 94); è un viandante alla ricerca della verità che gli sfugge e lo lascia in balìa del dubbio.Tale inquadratura induce Barsotti a due importanti considerazioni: «La religione di Leopardi diveniva una religione senza Dio: l’anima che si sottraeva all’infinita vanità del tutto, soffriva tuttavia una sete infinita e sapeva che non avrebbe potuto mai essere estinta». Inoltre: «Così l’uomo è desiderio di Dio in un mondo deserto, nel quale Dio è sconosciuto e assente» (p. 125). Illustra queste considerazioni esaminando la prima delle Operette morali dal titolo La storia del genere umano, e così la sintetizza: «La storia del genere umano è la storia dell’uomo alla ricerca di un infinito, alla ricerca di Dio, e l’infinito e Dio non esistono. L’uomo per sua natura non può fare a meno di qualcosa, di Uno che non può trovare perché non è. L’infinito non è che il desiderio dell’uomo e conseguentemente infinita non è che la sua infelicità» (p. 131).Importante è quanto afferma il poeta: «Giove fatto accorto, per le cose passate, della propria natura degli uomini, e che non può loro bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in qualunque stato l’impossibile», pensò di accontentarli mandando «tra loro alcuni fantasmi di sembianze eccellentissime e soprumane [...] e furono chiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e con altri sì fatti nomi» (5). Ma i fantasmi non possono appagare l’animo umano.
Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare questi fantasmi si configurano con l’illusione e il sogno, più forti della verità. «Chiunque consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro effetto né con altra utilità che di sognare; cioè credere di avere a godere, o di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche» (6). L’illusione più universale è la religione. Dio è un sogno? L’immortalità è una chimera? La morte è la fine di tutto?
Prima di esaminare questi interrogativi, espressi non soltanto nelle Operette morali, ma soprattutto, e in versi di rara bellezza, nella sua opera poetica, Barsotti studia la crisi religiosa del poeta.
La sua crisi religiosa
Tre sono le cause della crisi religiosa di Leopardi. Innanzitutto la cultura dominante nella quale egli ha trascorso la vita: positivismo, razionalismo, immanentismo. La religione è dichiarata superstizione e oggetto in disuso, salvo che non si riduca a filantropia o illusione che aiuti a vivere. Secondariamente il cristianesimo, come era vissuto nella sua famiglia. Esso fu avvertito dal poeta come contrario alla natura, negazione della vita, nemico delle felicità e della bellezza. Il cristianesimo del padre, conte Monaldo, era «superficiale e letterario», quello della madre rigido e quasi disumano; «barbarie» lo definisce il figlio. Infine gli uomini di Chiesa e gli ambienti della Curia romana. Essi offrivano lo spettacolo di un cristianesimo senza vita, senza dinamismo, senza prospettiva, «senza altra forza sulle coscienze che quella della minaccia di un eterno castigo».
Nota Barsotti: «Mancano alla tradizione italiana dell’Ottocento i grandi testimoni di un cristianesimo nuovo che abbiano superato le crisi terribili del pensiero immanentista moderno [...]. Il Leopardi è l’uomo di questa crisi» (p. 11). L’ha vissuta in prima persona e l’ha testimoniata nella sua opera. «Il sentimento della solitudine umana, l’aspirazione a una felicità, a una vita che solo Dio può soddisfare e l’aridità negatrice di un pensiero che crede di precludere ogni apertura verso la trascendenza, fanno dell’opera di Leopardi la più grande espressione poetica di questa crisi» (p. 14).Ripudiato il Dio del cristianesimo, l’uomo ha avvertito il bisogno di un suo surrogato, ha creato i miti (Leopardi li chiama «fantasmi») e ne ha proclamato il culto. Il poeta ha avvertito il richiamo di questi miti — la Natura, la Storia, la Società, la Ragione — e in alcuni ha anche creduto, ma ha sempre finito per comprenderne l’inconsistenza e ripiegare sulle verità cristiane. In merito Barsotti riferisce una mirabile pagina dello Zibaldone:

«Dopo la cognizione pertanto, non possiamo tornare alle illusioni [l’immortalità, l’altra vita, le qualità proprie degli uomini antichi o più vicini alla natura], cioè ripersuadercene, se non conoscendo che son vere. Ma non son vere se non rispetto a Dio e a un’altra vita. Rispetto a Dio ch’è la virtù, la bellezza ecc. personificata, la virtù sostanza e non fantasma, come nell’ordine delle cose create. Rispetto un’altra vita, dove la speranza sarà realizzata, la virtù e l’eroismo premiato ecc., dove insomma le illusioni non saranno più illusioni ma realtà [...].
«L’esperienza conferma che l’uomo qual è ridotto, non può esser felice sodamente e durevolmente (quanto può esserlo quaggiù) se non in uno stato (ma veramente) religioso, cioè che dia un corpo e una verità alle illusioni senza le quali non c’è felicità, ma ch’essendo conosciute dalla ragione, non possono più parer vere all’uomo, come paiono agli altri viventi, se non per la relazione e il fondamento e la realtà che si suppongono avere in un’altra vita» (p. 32 s).

«Questa pagina — commenta Barsotti — rimane unica in tutti gli scritti di Leopardi ed è la pagina più sorprendente. Va ben al di là delle premesse: non è solo la vaga speranza in un’altra vita postulata dalle illusioni della vita presente, l’altra vita è il fondamento necessario alla realtà, alla verità della cose» (ivi). L’insorgere del dubbio — elemento costante in Leopardi — lo stabilì in una crisi sorda e maligna e lo condannò a trascinare i suoi giorni in compagnia delle sue aspirazioni — felicità, amore — sempre insorgenti e sempre frustrate. Come testimonia la sua poesia.
C’è Dio nella sua poesia?
Il passero solitario — fra le più ispirate composizioni poetiche del Leopardi — si sviluppa su un motivo in esse ricorrente: l’addio alla giovinezza che il poeta non ha conosciuto e all’amore che non ha incontrato. Perché questa sua esclusione dalla vita? Perché la sua condanna alla solitudine? Forse per il rifiuto d’inseguire fantasmi? Tali sono l’amore e la giovinezza? l’immortalità, la beatitudine, le promesse del cristianesimo?
Una risposta indiretta ci viene dall’idillio L’infinito. «Le parole io nel pensier mi fingo vorrebbero insegnarci che l’infinito e l’eterno sono creazioni dell’immaginazione dell’uomo e l’uomo vive soltanto e si nutre dei suoi sogni. Ma i sovrumani silenzi e gli interminati spazi esistono, non sono una mera negazione del limite, come scrive il poeta. La loro realtà è assicurata dalla stessa esperienza interiore. L’illusione è certamente più reale, più viva dell’ermo colle, della siepe, dello stormir del vento... La natura diviene puro segno di altra realtà, segno povero di realtà immense» (p. 99).
L’idillio dunque — secondo Barsotti — suscita nel poeta l’aspirazione a una realtà trascendente; ciò che la vista provoca, il silenzio indica e il ricordo suscita è l’esistenza di «un altro mondo che attrae tutta l’anima a sé e già in qualche modo misteriosamente si fa presente nel cuore». Le cose sembrano non avere altra funzione che quella di provocare e richiamare un mondo ideale nel quale soltanto l’uomo trova la pace. La connotazione religiosa dell’Infinito sta nella testimonianza di un’esperienza del divino, anche se questo divino resta indeterminato.
Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia affronta alcuni interrogativi che hanno particolarmente tormentato Leopardi: qual è la causa finale dell’uomo e della sua vita? la causa finale dell’universo e del tempo? Il Canto notturno vuol essere pertanto «la somma del pensiero filosofico del poeta, ed è certamente il canto che supera tutti i canti del Leopardi per altezza d’ispirazione e per ampiezza di contenuto» (p. 184). Ad esso Barsotti dedica un commento penetrante, mettendone in risalto il senso religioso e affermando che «il Canto notturno è preghiera».L’ispirazione del Canto viene al poeta dall’intuizione dell’estraneità e smarrimento dell’uomo nell’universo. Se nella vastità del cosmo la terra scompare, che cos’è l’uomo? Che senso ha l’universo? Che fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? che vuol dir questa / solitudine immensa? ed io chi sono? Le domande si susseguono incalzanti. Nessuna risposta. Il poeta si rivolge alla luna, anch’essa vagante per le vie del cielo. Ha una mèta il suo riandare i sempiterni calli? Tace anche la luna. Sa, ma non parla. All’uomo invece è nascosto il perché delle cose, il significato del vivere, l’identità del proprio io. L’uomo resta solo, oppresso dal mistero. L’ultima strofa del Canto è scandita da tre «forse» che esprimono l’angoscia del dubbio sui problemi affrontati. L’ultimo «forse» sa di pietra tombale: Forse... è funesto a chi nasce il dì natale.
Anche su queste terre desertiche Barsotti scorge il filone religioso. «Ci sembra che la religione del Leopardi riconosca meglio, o senta di più, la grandezza dell’uomo e, nella sua incapacità di rassegnarsi a quello che sembra il destino comune, renda testimonianza più ferma di un’aspirazione più alta, del bisogno insopprimibile dell’uomo di evadere dalla prigione del mondo» (p. 196). Leopardi non sa se c’è Dio, sa però che l’angoscia dell’uomo «è un segno di Dio», anche se «non è un segno che possa dare pace e certezza» (ivi).
Che fai tu, luna, in ciel? Forse la luna è anch’essa segno di una presenza di Dio, ma di un Dio muto e inaccessibile. La speranza di sapere fallisce; resta soltanto il desiderio e l’ignoranza. Cioè l’infelicità. Comunque sia, tutto rimanda a Dio. «Di qui il carattere eminentemente religioso, più che filosofico, del suo pensiero. Dio rimane il soggetto della sua poesia e del suo pensiero perché tutto in lui rimanda a quello che è oggetto e fine del desiderio, tanto più presente e vivo, dolorosamente, quanto meno è creduto, quanto è più negato» (p. 198).
Una religione senza Cristo
Se nei Canti e nelle Operette morali è vano trovare un’adesione a Dio, nell’epistolario questo rapporto è ricorrente, soprattutto nelle lettere al padre. Il poeta ringrazia Dio per la salute, spera che Dio gli dia la possibilità di rivedere i suoi, lo chiama a testimone di quanto dice, si rassegna alla Sua volontà. Importante è la lettera al padre del 26 maggio 1827 dove si legge: «Anch’io in questi giorni ho ricevuto i SS. Sacramenti»; e il 24 giugno dello stesso anno: «Non posso abbastanza lodare la sua pietà dei soccorsi religiosi implorati, com’Ella mi scrive. Iddio certamente gliene renderà merito, ed esaudirà le sue e le nostre ardentissime preghiere» (7).
È difficile pensare che Leopardi fingesse. E allora? La conclusione cui giunge Barsotti, dopo aver studiato alcuni testi del poeta dove la religione è ignorata e negata, ci sembra persuasiva:

«[...] la sua anima non riposava nella negazione. Nel sentimento angoscioso della sua solitudine, egli non aveva dimenticato del tutto la preghiera e la sua speranza era soprattutto la preghiera dei suoi. La religione del poeta non era la religione eroica della patria, era piuttosto la religione di una natura dalla quale egli si sentiva tradito, eppure egli alla natura sentiva il bisogno di abbandonarsi come un figlio alla madre. Era la religione del ricordo: il poeta viveva la nostalgia dell’infanzia, della gioia che aveva perduto, di quel confidente immaginar che aveva aperto la sua anima al desiderio, all’amore. Era la religione della morte. Egli invocava la morte come invocava Dio.«In questa sua religione il poeta non rinnegava quella che egli aveva appreso da fanciullo: la sua religione, più che adesione a dogmi ben definiti, era una adesione inconsapevole, quasi naturale e istintiva, alla religione dei suoi. Il legame coi suoi era anche un legame spirituale e religioso, ma la sua non era per questo religione cristiana» (p. 290 s).

Era una religione priva di contenuto dogmatico, dunque priva di Gesù. «Nella lontananza infinita di Dio, il poeta sentì che la sua parola si perdeva soltanto nel silenzio» (p. 313) e la sua religione divenne rivolta. Contro chi? Contro l’autore dell’empietà della natura, responsabile del dolore del mondo e dell’umiliazione dell’uomo. Non è il Dio della rivelazione cristiana, non è la natura, non è un fantasma, poiché la nostra ansia d’infinito è reale, come reale è la nostra aspirazione all’immortalità. È Dio? Chi è Dio? Leopardi resta muto. E i «SS. Sacramenti» ricevuti? Le sue «ardentissime» preghiere? Nel salmo 63 si legge: «Un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso».
Dostoevskji mi ha svegliato dal sonno
Due testi di Barsotti ci introducono alla comprensione del suo Dostoevskij. Il primo è nella premessa al volume: «Io debbo molto a Dostoevskij e per onestà, oltre che per gratitudine, io dovevo scrivere. Non importa il giudizio che si vorrà dare oggettivamente del lavoro. Il lavoro comunque, se non rivelerà cose nuove, potrà sempre rivelare qualcosa di me e prima di tutto a me stesso [...]. L’opera di Dostoevskij è stata per me un messaggio e mi ha svegliato dal sonno». Sonno? Un altro testo chiarisce: «Io devo la mia “conversione” a Dostoevskij [...]. Ci fu un momento della mia vita in cui io sognavo di diventare un grande poeta, ed ero perciò sul punto di lasciare il seminario. Poi cominciai a leggere Dostoevskij, che mi aprì gli occhi».
Per Barsotti, Dostoevskij è certamente un grande scrittore, ma è anche un profeta nel senso che svela l’uomo a se stesso, ne scandaglia le pieghe nascoste, ne rivela la grandezza e la miseria, ne proclama la missione, ne narra la drammaticità delle scelte. Profeta soprattutto perché, appassionato com’è del Cristo, lo addita come amore che redime e verità che salva. «Forse è la sua passione per Cristo che mi svegliò dal sonno come non mi aveva svegliato né la visione della Provvidenza in Manzoni, né la teologia di Dante».
Attraverso Cristo don Divo avverte la presenza di Dio che gli parla e fuga i fantasmi che abitavano la sua crisi.
«Per lui mi ha parlato Dio. L’ho riconosciuto nel tormento di Raskòlnikov dopo il delitto, nella pietà e nella forza di Sonja [...]; l’ho amato nell’umiltà e nella dolcezza di Sonja de L’adolescente, nella luminosa bellezza di Macario, l’ho sentito presente nell’umiltà di Tichon ma anche nell’orrore della morte di Kirillov e nella condanna di Stavrògin, finalmente l’ho veduto nello staretz Zosima e in Aljòša. Sempre Dio era presente. La sua presenza dava un senso agli avvenimenti, dava un nome a ogni uomo. Il silenzio non era vuoto, era il silenzio di Dio che riempiva di sé ogni luogo, ogni avvenimento, era la vita nella comunione con lui, era la morte nella volontà di rifiutarlo, di volerlo negare» (p. 6 s). Il volume si sviluppa sostanzialmente su questi convincimenti, esaminati nelle loro varie sfaccettature lungo l’arco delle quattro parti: L’uomo e lo scrittore, I personaggi dei cinque maggiori romanzi, Il messaggio di Dostoevskij, La teologia di Dostoevskij.
L’uomo come epifania di Dio
Il concetto di Dostoevskij sulla religione si fonda sulla sua visione dell’uomo: «L’uomo supera la natura e annuncia un’altra realtà» (p. 20). Quale altra realtà? La realtà di Dio come realizzazione delle aspirazioni umane che superano il puro ambito naturale e riempiono il vuoto di Dio, che comporta malessere ontologico e morte. Dio non è un accessorio della natura umana, ne è il respiro vitale, è la presenza senza la quale essa si smarrisce e si frantuma. «È Dio che non cessa di torturare chi ha compiuto il delitto, finché nel pentimento non trova la pace del perdono, è Dio che vive nella pietà di Sonja per Raskòlnikov, nel suo amore senza limiti per i fratelli, è Dio che vive nella pietà e semplicità del principe Myškin, nella pace di Macario, il pellegrino che ormai ha finito di camminare e attende sereno la morte» (p. 21).
Contro Dio c’è il maligno, che è «la realtà del male in una vita di menzogna, in una volontà di distruzione e di morte». Così la vita umana è una lotta tra Dio e il maligno, che si contendono il suo dominio. Per descriverla Dostoevskij scende negli abissi del cuore dove abitano il peccato e la Grazia, e vede il peccato che corrode l’uomo, e Dio impegnato a conservare nella sua creatura la propria immagine nella quale risplende soprattutto l’amore.
Da queste considerazioni lo scrittore deduce che l’inferno e il paradiso non sono realtà estranee all’uomo. Sono nel suo cuore: le accoglie nella sua vita come parte di sé, e con esse si avvia all’eternità. Deduce anche che «l’uomo non è senza Dio» (p. 22). È in rapporto con Dio «non soltanto nella misura in cui lo ama; egli è in un suo rapporto con Dio, sia che questo sia odio o sia amore. Anche nella trasgressione alla legge egli vive un suo rapporto con Dio. Non può chiudersi in sé, rifiutare un suo rapporto con lui; nel peccato stesso l’uomo, che vorrebbe sganciarsi da Dio per affermarsi e acquistare una sua “libertà”, non vive nell’opposizione al suo Creatore che la sua distruzione e la sua morte. Al contrario, vive già un suo rapporto d’amore con Dio nel suo rapporto con la creazione, e più ancora nel suo rapporto di amore con l’uomo, perché la creazione è il primo segno di Dio, e l’uomo, immagine di Dio, è il segno più alto della sua presenza. Così nell’amore del prossimo l’uomo vive la sua più alta esperienza di Dio» (p. 152).
Personaggi come testimoni
La visione dell’uomo come epifania di Dio, in senso sia positivo sia negativo, viene descritta da Dostoevskij nei suoi personaggi: una galleria che offre una rappresentazione metafisica e religiosa del dramma umano che è la nostra vita. Tutti sono alla ricerca di verità, di vita, di felicità, di libertà; tutti danno l’idea di idee incarnate; tutti sono portatori di un messaggio. Dostoevskij li insegue, li scova nei segreti del loro animo, non di rado si immedesima in essi, rivivendo esperienze personali. Pochi scrittori «hanno saputo discendere negli abissi del cuore umano come Dostoevskij, e proprio per questo ben pochi hanno saputo dirci più di lui come l’uomo sia al centro di tutto, come sia senza fondo e senza confine la sua vita» (p. 23).
Nella galleria dei personaggi che testimoniano in negativo la presenza di Dio, Barsotti fa incontrare gli eroi del romanzo I demoni: Nikolaj Stavrògin, Pëtr Verkovenskij, Aleksej Kirillov. Qui lo scrittore narra il tentativo di un gruppo di «indemoniati» di sganciare il popolo dalle miserie del vivere quotidiano e di liberarlo da ogni alienazione, sostituendo la fede in Dio con la religione del popolo, non importa se ciò debba realizzarsi con la forza e il massacro. Kirillov vuole la divinizzazione dell’uomo, nega Dio, ne desidera la morte, e per realizzare tutto ciò si suicida; Stavrògin dissipa ogni sua possibilità nel vizio e nella volontà di sfidare la legge e la pubblica opinione: incapace di amare, «non vive che il vuoto». Pëtr «è l’incarnazione del maligno, tutto in lui è menzogna, il suo impegno è quello di contraffare la verità, la sua opera è la distruzione e la morte» (p. 72).
Dalla lettura de I demoni si esce come da un incubo perché, respinto Dio, che è vita, fa irruzione la morte. «La ribellione verso Dio, l’ateismo, il peccato non sembrano dare alcun frutto. La morte è la conseguenza irreparabile del peccato. Verso questa morte, che è il suicidio di Stavrògin, converge tutto il romanzo, ne è il compimento e il cuore» (p. 61). Ne I fratelli Karamazov la morte si configura con la follia. Ivàn nega Dio per orgoglio e lo sostituisce con la propria ragione; conseguentemente diviene preda di pensieri e desideri malsani, incontra Satana e precipita nella follia. Morte, follia, disperazione, solitudine, vuoto interiore: sono l’eredità di quanti rifiutano Dio.
Tra i personaggi che testimoniano in positivo la presenza di Dio, Barsotti ne predilige due: Sonia in Delitto e castigo e lo staretz Zosima ne I fratelli Karamazov. Sonja è «la figura cristianamente più pura di tutta l’opera di Dostoevskij: è una prostituta, ma vive incontaminata in un mondo di peccato» (p. 129). Per salvare la famiglia dalla miseria, vende il suo corpo, ma il peccato non tocca la sua anima. «La sua bellezza è tutta spirituale. La sua apparizione, la sua presenza non turba, non eccita i sensi. Può discendere e può vivere nell’ambiente di peccato e di depravazione e non contaminarsi; anzi è lei che purifica [...]. Il suo sembra l’atteggiamento stesso di Dio nei confronti dei peccatori» (p. 40 s). Sa che la sua condizione non le consente di vivere una vita sacramentale e non osa partecipare alla vita della Chiesa, ma legge il Vangelo, che la fortifica e le dà la forza di accettare la sua abiezione.
Nello staretz Zosima, Dostoevskij ha inteso offrire un’icona del cristianesimo: un’icona che fosse la negazione di quanto, sullo stesso argomento, aveva sostenuto Ivàn Karamazov. Nel cristianesimo, personificato nello staretz, c’è un’invasione di pace, di gioia, di forza, di amore. Nella luce della fede tutta la realtà si trasfigura.
La teologia di Dostoevskij
La figura dello staretz ci introduce nell’ambito di quanto Barsotti chiama, un po’ enfaticamente, La teologia di Dostoevskij. In realtà, lo scrittore non è un teologo né ha inteso fare teologia. È un analista dell’animo umano; indagandone la natura, le esigenze e le leggi, intuisce che l’uomo è immagine di Dio e che, se distrugge questa immagine, distrugge se stesso e diventa immagine del maligno. Al centro del mondo dostoevskiano dunque c’è «l’uomo, e nell’uomo si fa presente il mistero stesso di Dio. La vita dell’uomo è lo scontro del male e del bene; il problema del male e la concezione del bene dominano tutti i romanzi, e il bene e il male suppongono la libertà, postulano Dio» (p. 143). In Dio c’è la vita e la pace, senza Dio c’è la disgregazione e la rovina.
Il problema dell’esistenza e della natura di Dio ha tormentato lo scrittore. È approdato alla fede non per via di ragionamento, ma attraverso la conoscenza di Gesù, incarnazione dell’amore che salva. Una fede, la sua, conquistata metro per metro, giorno dopo giorno, durante un’esistenza trascorsa all’insegna dell’insicurezza, della sofferenza e della macerazione interiore. Una volta incontrato, Cristo non ha mai cessato di presentarglisi come salvezza dell’uomo, sorgente e salvaguardia della libertà, ideale di ogni grandezza, fondamento della civiltà e della convivenza.
Barsotti difende l’ortodossia della fede cristiana dello scrittore contro quanti sostengono che la sua, più che religione cristiana, è religione del popolo e della terra. «È certo che la tentazione di una religione del popolo e della terra non è stata mai assente dalla sua vita», ma «quando scriveva I demoni [in cui si ipotizza questa concezione] aveva ben chiaro che Dio non si identificava con l’anima di un popolo, e che la fede in Dio trascendeva una fede nel destino della nazione» (p. 142).
E la tentazione del «Dio russo»? Questa tentazione «rimase [in lui] fino alla fine, ma non provocò il suo allontanamento da Cristo. Il Cristo ha rotto l’incantesimo di una natura chiusa, nella quale l’uomo è prigioniero. Quel Dio che si è incarnato nel Cristo non è, come nel paganesimo, una personificazione o un elemento della natura, ma è un Dio che trascende la natura. Nel rapporto con lui, l’uomo è salvo precisamente perché rompe l’incantesimo di una natura che lo tiene prigioniero. Nel suo rapporto con Cristo ogni uomo è salvo, perché Dio lo ama, e non è inghiottito e digerito dal processo del tempo e della storia: l’uomo supera la natura e supera il tempo» (p. 144).
Il Dio della religione di Dostoevskij pertanto «non si confonde col divino della natura e non è il Dio della metafisica, ma non è neppure il Dio della storia: è il Dio che si è rivelato all’uomo nella vita e nella morte del Cristo, è, in ultima istanza, il Dio che vive nel cuore dell’uomo» (p. 145). È vero che questo Dio «non è mai esplicitamente il Dio Trinità della rivelazione cristiana», ma «non si può chiedere a un romanziere un trattato di teologia». È anche vero che lo scrittore «esplicitamente non parla dell’incarnazione», tuttavia la centralità del suo Cristo e l’amore che gli porta «suppongono una sua trascendenza». A questo proposito vorremmo ricordare la splendida affermazione cristologica — Gesù Cristo è il Verbo fatto carne — che si trova nei Taccuini per «I demoni». Dopo aver respinto la concezione, in quel tempo ricorrente, di un Cristo soltanto uomo, filosofo benefico e maestro di vita, afferma: «Ma io e voi, Šatov, sappiamo che sono tutte sciocchezze, che Cristo-uomo non è il Salvatore e fonte di vita e che la sola scienza non completerà mai ogni ideale umano e che la pace per gli uomini, la fonte della vita e la salvezza dalla disperazione per tutti gli uomini, la condizione sine qua non e la garanzia per l’intero universo si racchiudono nelle parole: Il Verbo si è fatto carne e la fede in queste parole» (8).
Conclusione
Come definire i due volumi di Barsotti? Non sono opera critica: nessuna nota, nessun riscontro con altri studiosi, nessun confronto interpretativo. Don Divo va avanti per conto suo, solitario e tranquillo, in ascolto soltanto di se stesso. Li definiremmo pertanto una conversazione con due eccellenti compagni di strada, Leopardi e Dostoevskij, fatta con intelligenza d’amore e suggerita da comuni esperienze di vita e da approfondimenti spirituali. Volumi ricchi d’interesse, vivi, solcati da squarci di luce, per vari aspetti simpatetici. Non privi di limiti: ripetizioni, talune forzature interpretative, qualche carenza d’informazione.
Se volessimo sintetizzarli in poche battute, trascriveremmo un pensiero del loro autore: «Tutto è ombra; ogni creatura, ogni avvenimento è segno. L’unica realtà sei Tu – e solo l’amore ti scopre» (9).

1 È «un movimento di stampo monastico che comprende laici consacrati che vivono nel mondo e monaci e monache impegnati in una vita comune di preghiera e di lavoro. La Comunità dei Figli di Dio è presente oggi in varie parti d’Italia e del mondo» (dalla relazione di Carmelo Mezzasalma Poesia e contemplazione. Una chiave di lettura per Divo Barsotti, tenuta nel Convento della SS. Annunziata di Firenze l’11 novembre 2005).
2 Si calcola che abbia scritto 150 libri, senza contare i saggi e gli articoli sparsi un po’ dovunque. Ricordiamo in particolare i suoi dieci volumi di diari (cfr F. CASTELLI, «Divo Barsotti. “Come vorrei che la parola fosse fuoco”», in Civ. Catt. 1994 II 260-263). Recensendo In Cristo. Diario mistico, 1981, G. Mucci scriveva che Barsotti «ha la capacità di vedere e di far vedere (e questa volta è parola di Carlo Bo) le cose del mondo e di Dio dal punto di vista dell’eterna bellezza» (cfr Civ. Catt. 1989 II 407).
3 D. BARSOTTI, La religione di Giacomo Leopardi, Brescia, Morcelliana, 1975; ID., Dostoevskij. La passione per Cristo, Padova, Messaggero, 1996. Le pagine citate nel testo si riferiscono a questi volumi.
4 Intervista rilasciata da don Barsotti a E. Fabiani, in Gente, 13 novembre 1981.
5 G. LEOPARDI, Operette morali, Milano, Garzanti, 1984, 12, 15.
6 Ivi, 111.
7 Nel 1987 Nicola Storti ha pubblicato un volumetto — Fede e arte in Giacomo Leopardi (Roma, Associazione Internazionale Mariana) — in cui ha riportato due importanti documenti. Il primo è l’atto di morte, rinvenuto dall’oratoriano G. Tagliatela, firmato dal parroco della SS. Annunziata a Fonseca, di Napoli. In esso si dice che «A 15 giugno, D. Giacomo Leopardi Conte, figlio di D. Monaldo Leopardi e di Adelaide Antici, di anni 38, munito dei SS. Sag.ti [sic] morto a 14 d.». Il secondo documento è una lettera del gesuita Francesco Scarpa al p. Carlo Curci in cui parla della «conversione» di Leopardi. Questi nel 1836 si sarebbe confessato da lui nella chiesa del Gesù Nuovo, dopo un lungo colloquio, e avrebbe proseguito «a confessarsi dopo di tratto in tratto per quattro o cinque mesi». Nicola Storti sostiene l’attendibilità di tali documenti (cfr G. DE ROSA, «Morte “cristiana” di Giacomo Leopardi»?, in Civ. Catt. 1988 II 568-572).
8 F. DOSTOEVSKIJ, I demoni. I taccuini per «I demoni», Firenze, Sansoni, 1958, 1.012.
9 D. BARSOTTI, Nel cuore di Dio, Bologna, Edb, 1991, 6


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