Tempi num.47 del 07/12/2006
«La Sla mi ha dato più di quel che mi ha tolto».
Parla Mario Melazzini, medico che ha scoperto
su di sé che «inguaribile non significa incurabile»
di Boffi Emanuele
Dottor vita
Mario Melazzini è piuttosto scocciato, e non perché si sente mancare il respiro quando la badante gli lava i denti. È piuttosto deluso dal fatto che il 18 settembre ha portato a Roma duecento malati di sclerosi laterale amiotrofica (Sla) e sulla grande stampa non se l'è filato quasi nessuno. Un sit-in di duecento carrozzine con persone ventilate artificialmente e tracheotomizzate che protestavano davanti al ministero della Salute per chiedere maggior attenzione. «E c'era gente in condizioni peggiori anche del signor Welby. Vabbé, comunque sono contento che eravamo in tanti. Sono queste le cose che mi danno forza per andare avanti». Mario Melazzini è piuttosto scocciato, e non perché tutte le sostanze che la sonda gli rilascia in pancia hanno un retrogusto nauseabondo di vaniglia. È inviperito perché nel giorno in cui il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricevuto la lettera di Piergiorgio Welby, il copresidente dell'associazione Luca Coscioni che gli ha chiesto di staccare la spina, anche un suo amico - malato anch'egli di Sla - ha inviato una missiva al capo dello Stato. Scriveva di voler vivere, ma di aver bisogno di un aiuto economico non per disattivare la corrente, ma per farla fluire in un marchingegno che lo tenesse in vita e che, però, purtroppo, lui non aveva gli euro per acquistare. «Qualcuno lo sapeva?». Non l'ha saputo nessuno. Però molto s'è discusso di necrofili diritti, di dolce morte, di testamento biologico, di sondaggi sui cattolici che, insomma, quella spina al signor Welby gliela staccherebbero in un amen.
In Italia ci sono circa 5 mila malati di Sla, ma si parla solo di uno, di quello che vuole andarsene. Degli altri 4.999 che vorrebbero continuare si occupa Melazzini che è presidente dell'Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica (Aisla). Lo ha raccontato a trecento ragazzi che da grandi faranno i medici nell'aula magna della clinica Mangiagalli di Milano. L'hanno invitato per chiedergli se inguaribile è sinonimo di incurabile. E lui, che per essere in forma si è «iperventilato tutta la notte e anche durante il viaggio in automobile», è arrivato in sedia a rotelle per raccontare la sua esperienza, «che non è solo quella di un malato di Sla, ma anche quella di professionista». Melazzini è primario del day-hospital oncologico della Maugeri di Pavia e, da tre anni e mezzo, è affetto da Sla, la malattia che ti rende progressivamente i muscoli di granito. «Sono oncologo e sono diventato primario a 39 anni. Mi consideravo un medico attento, sensibile, efficiente». Poi i primi sintomi. E la consapevolezza che l'unico rimedio è il Riluzolo, farmaco che, se assunto precocemente ai primi stadi del male, «vi darà il sollievo di vivere tre o quattro mesi in più».
Quando Melazzini scoprì di essere diventato un paziente reagì distaccandosi dagli affetti, immergendosi nel lavoro, pensando, infine, «di farla finita». S'informò su Dignitas, l'associazione che aiuta a morire dolcemente, «una cosa squallida». Poi, ad un certo punto, anziché chiedersi che cosa la malattia gli stesse togliendo, si pose il quesito opposto: «Cosa mi dà questa malattia? Per certi versi, ora, mi sento più sano. Mi rimane la testa. E per fortuna questa è ancora una professione che si fa con la testa. Non sempre, certo, esistono anche colleghi che lavorano coi piedi, ma diciamo che la malattia mi ha dato più di quel che mi ha tolto».
I tuttologi e i "piccologi"
Tra le rinunce elenca il sollievo di un colpo di tosse, «perché ogni qual volta che ti viene il riflesso è un dramma». I giri in bicicletta, le passeggiate in montagna, il caffè, l'inghiottire la saliva. Cosa gli ha dato? "Mi ha fatto scendere dal piedistallo su cui stavo. Dicono che alle porte del Paradiso c'è una lunga fila di gente che, ordinata, attende di presentare i documenti a san Pietro per entrare. Di tanto in tanto arriva uno tutto trafelato vestito con un lungo camice bianco. Si fa spazio, salta la fila e, incurante del santo, s'infila nell'uscio. Chi lo vede per la prima volta rimane sbigottito. Non san Pietro: "Non fateci caso, è nostro Signore che si crede un medico"».
Oggi i malati che si presentano davanti al dottor Melazzini si sentono guardati in modo diverso: «Se il rapporto medico-paziente è basato su un contratto in cui si stipula che tutto dipende dalla guarigione, allora la sconfitta è sicura. Perderà sia l'uno sia l'altro perché esistono limiti invalicabili imposti dal male». Tuttavia inguaribile non è sinonimo di incurabile. «Una volta fra i medici c'erano i tuttologi, oggi ci sono i "piccologi". La medicina si fa sempre più tecnica, più specialistica con il rischio di perdere di vista il tutto». Il tutto non è la malattia, «è il malato». «Il paziente vuole guarire, ma soprattutto vuole essere "preso in carico", cioè vuole che qualcuno di prenda cura di lui, condivida la sua situazione. È una vicenda ben diversa dal spiegargli i suoi diritti». Scriveva Hannah Arendt che gli uomini muoiono, ma non sono fatti per morire. Sono creati per incominciare. Melazzini dice che, quando non avrà più fiato per esprimersi, ricomincerà «da qualche altra parte. Non so come, ma ricomincerò».
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