domenica 18 febbraio 2007

RENDERE PRESENTE CRISTO NELLA NOSTRA CARNE,IN OGNI AMBIENTE, IN OGNI REALTA' UMANA

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di adulti di Comunione e Liberazione. Cesena, 6 ottobre 1986

L’essere uomini, il salvare, per usare un termine che non è soltanto religioso, il salvare la nostra umanità costituisce sempre, qualunque cosa facciamo, esplicitamente o implicitamente, il criterio ultimo: anche quando sbagliamo, sbagliamo per salvare la nostra umanità, per godere di più la nostra umanità, nell’illusione di affermare di più la nostra umanità. Essa è il criterio in base al quale noi sentiamo e giudichiamo tutto. La nostra umanità!

nell’illusione di affermare di più la nostra umanità. Essa è il criterio in base al quale noi sentiamo e giudichiamo tutto. La nostra umanità! Potremmo usare un altro termine: essere più felici! Salvare l’umanità vuol dire realizzarla, e questa perfezione (perché “realizzare” in latino si dice con un termine - perficere - che in italiano si traduce con “perfezione”) dal punto di vista psicologico si chiama “felicità”, o “soddisfazione”, che è sinonimo di perfezione e perciò di felicità. Il desiderio della felicità, dell’affermarsi compiuto, intero, della nostra umanità è il criterio per il quale uno sceglie un film invece che un altro, sceglie di impegnarsi in un determinato lavoro e di sacrificarvi energia e tempo, sceglie la ragazza con cui fare famiglia, accetta o non accetta figli. Il criterio è unico, ed è questa umanità che abbiamo addosso, che è come una cosa incompiuta, che urge di compiersi. L’epoca in cui viviamo è come se portasse alle estreme conseguenze l’equivoco che può nascere sul concetto e sul sentimento di umanità: l’equivoco è se l’umanità, la nostra umanità, possiamo costruirla, adempierla completamente noi, oppure è qualcosa d’altro che la può salvare, è qualcosa più grande di essa che la può realizzare. Questa alternativa, che è di tutti i tempi, si può tradurre secondo la parola che è stata tematizzata nella Scuola di comunità dell’anno scorso, la parola “appartenenza”: se l’uomo appartiene a se stesso o appartiene a qualcosa d’altro. Ora, l’uomo che pretende di appartenere a se stesso cerca di costruire una visione dell’uomo e del mondo in cui, come opera delle sue mani, la sua umanità si realizzi. È inevitabile che parta da un certo punto di vista, è inevitabile la parzialità in questo tentativo; per questo si chiama anche ideologia.
Siamo in un momento in cui questo equivoco è portato alle estreme conseguenze. Questo primo fattore dell’alternativa, portato alle estreme conseguenze, ha dato lo scacco matto a tutte le ideologie. Noi viviamo un presente in cui tutte le ideologie sono crollate: proprio là dove si è tentata, come nel ’68, l’esasperata affermazione di esse, là si è aperto il baratro dove tutto è affondato. Le grandi ribellioni sono ridiventate tranquillamente adesioni allo “stabilizzato”, ai partiti al potere. Questa scelta, però, ha ancora una conseguenza. Crollate le ideologie, con le loro pretese di soluzione delle ingiustizie in cui l’uomo vive, ebbene, bisogna pur vivere; e non si può vivere nel disordine! Allora, chi ha in mano il potere ha soprattutto interesse che non vi sia un disordine tale da mettere in scacco la sua posizione. Così, per essere brevi, l’uomo di oggi, l’uomo al potere in tutti i campi e in tutti i sensi, non dettaglio per pudore, vuole operare una creazione nuova, vuole operare un tipo di uomo - attraverso l’educazione, attraverso un’educazione che può essere data anche ai quarantenni e ai cinquantenni, col martellamento dei mass-media, con le proibizioni e coi tabù stabiliti e resi mentalità comune -, vuole creare un tipo di uomo che sia nella realtà del mondo come un bullone o come un aggeggio meccanico in mano a un operaio che lo utilizza. In questo senso passano come parole d’ordine definizioni di certi valori ed esclusioni di altri. «Se si è in troppi, come si fa ad essere ordinati!»; perciò bisogna essere molto di meno, e allora è ridicolizzato chi ha tanti figli e uno resta tranquillo se non ne vuole, con la coscienza a posto: corrisponde al tipo d’uomo che la mentalità dominante vuole imporre. Così, chi non la pensa, circa i valori della vita, secondo la mentalità al potere è un sognatore pericoloso, diciamo ancora meglio, è uno psicopatico.
In Russia questo è applicato letteralmente: un uomo sinceramente religioso deve o può essere messo in manicomio, perché è evidentemente al di fuori della norma, della mentalità normale, è anormale e bisogna ricondurlo dentro la norma.
Possiamo riassumere in una parola sola tutti i valori dell’epoca moderna, della nostra epoca, così come sono affermati dal potere che ci plasma, senza che noi ce ne accorgiamo (ed è chiaro; se non c’è il paradiso, se quello che c’è è solo quello che tocchiamo e vediamo): il benessere quaggiù. È il benessere: tutto deve essere in funzione del benessere; la parola “consumismo” viene come conseguenza, ma tutto deve essere in funzione del benessere, tutto è calcolato per il benessere. È meglio che esistano venticinque uomini nel benessere, che godono, piuttosto che esistano duecentocinquanta uomini che non godono! È più logico, più razionale! Così cerchiamo di arrivare anche là dove l’uomo si genera, con la biogenetica, e cerchiamo di creare un uomo, usando i metodi adatti, che abbia una determinata ampiezza di desideri e non di più, che sia ben delimitato, così possiamo governarlo bene! Quello che lo scrittore Huxley aveva immaginato tanti anni fa, nel suo romanzo Il mondo nuovo, adesso il potere pretende di realizzarlo.
Comunque, l’ultima alternativa a quella dignità umana che ogni madre sente, che ogni persona normale sente e che tutte le religioni del mondo hanno sempre esaltato, l’ultimo passo dell’alternativa a questa dignità dell’uomo sta proprio qui: l’ideale che si può perseguire è quello di un mondo ben delimitato nel suo equipaggiamento numerico, di un mondo umano delimitato nelle sue aspirazioni; ma in modo tale che tutti possano vivere “contenti”, “soddisfatti”. E tutto ciò che non rientra in questo processo previsto deve essere impedito di nascere o eliminato. I vecchi che ci fanno? Chi è storto che ci sta a fare? Quindi, o impediti di venire al mondo oppure eliminati se sono al mondo. Ed è chiaro, ogni presenza che obietta e reca “disordine” va messa a tacere: perché, come si fa a governare bene, con esattezza, tutti questi meccanismi sofisticati che devono trattare l’uomo come si tratta un diamante o una pietra preziosa, o come si tratta l’atomo o il neutrone, senza tranquillità? Perciò occorre un equilibrio, occorre - questa è la parola che riassume tutto - la “pace”. Occorre la pace! Ma sull’altro versante c’è come una strana «pena del contrappasso», direbbe padre Dante, per cui di fronte a questa suprema ripugnante autonomia che l’uomo pretende di avere sulla propria e altrui umanità - per cui il potere può assassinare, eliminare, tutto ciò che si frappone sul suo cammino d’ordine -, qualcosa d’altro emerge.
Un bel po’ di anni fa, quando era in corso una campagna contro Hitler e il nazismo, comprensibilmente - e si parlava della disumanità di quella “teoria” che ha fatto ammazzare tanti ebrei, semplicemente perché applicava queste idee; perché il nazismo ha anticipato tutte queste idee: infatti, se il benessere del mondo è nel sangue della razza tedesca, tutto ciò che non può essere assimilato al sangue della razza tedesca deve essere eliminato -, ecco, proprio in quell’epoca apparvero sul Corriere della Sera quattro mezze colonne del fratello di quel romanziere citato prima, Huxley, in cui, dopo aver rivolto un’accusa a Hitler, si diceva: «Bisogna, proprio per evitare gli Hitler e tutte le Auschwitz di questo mondo, che noi troviamo un sistema genetico per far nascere uomini, con cui si eliminino, prima che nascano, tutti i difetti. La genetica, come scienza, può arrivare a questo, e così avremo una razza perfetta». Vale a dire, Huxley, combattendo il signor Hitler, applicava lo stesso identico sistema; soltanto che per Hitler l’ideale discriminante era il sangue della razza tedesca, per Huxley la razza perfetta ottenuta mediante la scienza. La scienza, cioè uno strumento applicato da certi uomini, da certe correnti di pensiero, perché la scienza è anch’essa, come la politica, tutta divisa in correnti.
Allora, come “pena del contrappasso”, in questo momento di aberrazione suprema, dove l’ideale umano sembra quello di distruggere l’uomo per creare un altro tipo di essere, proprio in questo tempo il sentimento religioso emerge più potente che mai.
Mai il senso religioso è stato così animosamente presente, rendendo irrequieto l’uomo di tutte le razze e di tutte le età, mai è stato così vivo come oggi: impreciso, confuso, terribilmente sconcertato, ma mai così potentemente presente nell’animo dell’uomo come oggi.
Sentimento religioso, senso religioso: ma che cosa intendiamo? Repetita iuvant. Il senso religioso è quella irriducibile caratteristica del cuore umano, della natura ultima dell’uomo, per cui egli non può essere soddisfatto, perfezionato, compiuto, da niente che tu gli dia e gli offra - salvo l’illusione del momento -. L’uomo ha qualcosa per cui non riesce a “quadrare”, non riesce ad essere completo, perché l’uomo è rapporto con qualcosa di infinito: chiamiamolo come vogliamo, la storia delle religioni l’ha chiamato Dio, ma l’uomo è per sua natura rapporto con qualcosa di incommensurabile con sé. Qualunque cosa l’uomo afferri, mentre la stringe, essa gli dice: «Addio!» - osserva il poeta Clemente Rebora, di cui abbiamo commemorato il centenario -, e tanto più quanto più la stringe. È come se questo uomo avesse un destino strano. È per questo che sono diventate di moda le fughe in tutti i rivoli dei tentativi di mistica indiana, orientale, e sorgono sette religiose a centinaia e migliaia: è per questo sentimento proprio del cuore dell’uomo, per questa irrequietezza irrisolvibile, segno di un destino più grande che neanche tutti i progetti delle sue opere; è per questo senso religioso, che si desta proprio mentre l’uomo sta per essere strozzato dal potere (non per cinismo, con metodo cinico, ma per far “star bene”, per far “star meglio” l’umanità!). Proprio in questo momento, l’uomo, sentendosi ribollire il cuore, non sa dove andare a parare, non sa leggere in questa inquietitudine, non sa identificare il contenuto dello scopo, il traguardo a cui viene spinto, a che serve tutto questo.

Allora, ci ricordiamo in questo momento di quello che ha detto Giovanni nel suo vangelo: «Dio nessuno lo ha visto», il destino cui l’uomo è destinato - e, per quanto vaga, non esiste nessuna parola che sia più determinante di questa, più evidente di questa come esistenza - nessuno l’ha mai visto, «l’Unigenito del Padre ce lo ha narrato»: questo destino è diventato uno fra noi. Il destino per cui l’uomo, il cuore dell’uomo è fatto, per cui non basta la donna per l’uomo e non basta l’uomo per la donna, non basta la madre per il figlio e non basta il figlio per la madre, e non bastano i soldi a chi cercandoli ne ha avuti molti, e non basta il potere per chi fosse arrivato sulla cima ultima della piramide, questo destino è diventato uno fra di noi. È l’impressione grande e senza paragone che certamente chi di voi è stato in Terrasanta ha provato, davanti ai rimasugli della casa o grotta dove Maria, quindicenne, ebbe l’annuncio dell’angelo (e quanto più gli scavi procedono, le ricerche scientificamente procedono, tanto più la tradizione viene confermata fin nei particolari), quando si legge, con un brivido alla schiena, su un pezzo di quel muro: «Verbum caro hic factum est», «il Verbo si è fatto carne qui». Il Verbo, vale a dire ciò per cui il cuore è fatto, ciò per cui una madre fa nascere un figlio, ciò per cui vale la pena vivere, ciò per cui non c’è nessuna vita, per quanto disgraziata, che sia inutile. Ogni vita merita di essere vissuta, perché ogni essere umano che viene in questo mondo è rapporto con l’infinito, è rapporto con quell’Uomo che si è fatto seme nel grembo di quella piccola donna. Un seme appena messo nella terra, chi lo riconosce? Nessuno. Si confonde con la terra. Chissà poi come fa nel tempo a venire fuori questo piantone enorme! E uno là, davanti alle mura dove la Madonna ha avuto l’Annunciazione - pochi metri lontano dalla casa di Giuseppe, coi sette gradini rituali per entrarci, per entrare nel laboratorio -, davanti a quelle mura restanti o a quel pezzo di roccia, è preso da un brivido più grande ancora e dice: «Ma guarda, tutto è nato da questo seme, come un seme dentro la terra, che non si riconosce. Ma chi andava a pensarlo?». Ricordate l’Inno a Maria di Alessandro Manzoni? Chi poteva pensarlo? E chi poteva pensare a quella ragazza, che ha fatto a piedi più di cento chilometri su montagne desertissime di pietra per andare a trovare la cugina Elisabetta, che in quel momento misterioso aveva saputo essere anche lei incinta, pur nella sua vecchiaia, e incontrandola ha gridato, ripetendo frasi della Bibbia: «Beata mi diranno tutte le generazioni»? Noi stiamo ancora, questa sera, realizzando questa profezia!
Dal niente - questa è l’impressione più grande che io ho tratto dal viaggio in Terrasanta -, dal nulla, proprio dal nulla, come un seme di pianta dentro la terra è niente, dal nulla è diventato una cosa grande, che ha coperto il mondo, secondo la parabola del Vangelo, che si è dilatata per tutto il mondo, non solo, ma che sfida tutto il tempo: «Le porte degli inferi non prevarranno contro di essa». Ma quale può essere mai un potere di questo mondo che osi sfidare il tempo della storia dicendo: «Durasse la storia due miliardi di anni, se io vengo meno non sono più vero, io sfido questi due miliardi di anni»? Tale è la coscienza della Chiesa, corpo misterioso di Cristo. È, infatti, in questo corpo che il Verbo fatto carne è presente: Egli è qui, è qui come il primo giorno.
Come è qui? Tocchiamo così ciò che ci entusiasma più profondamente, qualunque età abbiamo, tocchiamo quello che ci unisce più di qualunque legame di sangue, tocchiamo quello che ci dà speranza (quanti ne abbiamo visti morire con questa speranza, dandoci un segno che nessuna parola può esprimere!): Egli è qui come il primo giorno, in noi, tra di noi. Perché questo è il metodo con cui quell’Uomo, Dio reso carne, si dilata nel tempo e nello spazio, diventando presente a ogni momento del tempo e dello spazio: attraverso gli uomini che il Padre gli dà nelle mani, o che Lui sceglie - l’uomo battezzato, l’uomo chiamato, noi -. È nella nostra compagnia, è nella nostra unità, che la Sua presenza è qui come nel primo giorno e opera come nel primo giorno, opera come al culmine della sua manifestazione: tra di noi opera, tra di noi cambia, muta, opera il miracolo vero, che è quello dell’uomo che diventa più uomo; opera lo spettacolo più grande, che è quello di una umanità fraterna; opera lo splendore di una purità di vita, lo splendore di una capacità di povertà, che non è il non avere soldi, ma saperli usare in funzione di ciò che è più grande di noi, per il bene sia pur provvisorio di questa umanità in cammino.
Perché è una umanità in cammino. Questo è ciò che ogni ideologia e che il potere che domina la nostra epoca non sa neanche pensare: noi siamo una umanità in cammino verso il proprio destino. Ognuno per suo conto? No! Ognuno insieme all’altro, ognuno col passo e nel passo dell’altro. E ognuno non perde più nulla di ciò che tocca e di ciò che abbraccia: «Anche i capelli del vostro capo sono numerati e anche una parola detta per scherzo non andrà perduta».
Allora noi dobbiamo rinnovarci nella responsabilità che ci è toccata e che nessuno può scaricare, perché la dignità della mia vita e della tua vita è identica, e non sta in quel che fai, non sta nella professione o nel ruolo che svolgi nella società: sta in questa grande “rappresentanza” del mistero di Cristo cui sei stato chiamato.
Altri risponderanno a Dio in un altro modo. Noi non possiamo rispondere a Dio, se non della scelta che di noi ha fatto, della vocazione cristiana che ci ha data e che deve investire tutto. Allora tutto diventa importante, dalla professione alla paternità, alla maternità, alla compagnia, all’amicizia, allo studio, al lavoro, al tempo libero, al respiro; tutto diventa utile e importante, se è investito da questa coscienza profonda, chiara, della vocazione cristiana che abbiamo avuto.

Riprendendo, vivendo la Scuola di comunità di quest’anno, ci accorgeremo sempre di più dei grandi compiti che abbiamo di fronte a tutti gli uomini, che la nostra compagnia ha di fronte a tutto il genere umano, a tutta la società.
1)Il primo compito: rendere presente Cristo in ogni ambito, in ogni ambiente, in ogni realtà umana. Rendere presente Cristo attraverso la coscienza di sé determinata dalla memoria Sua, attraverso l’esempio supremo, il miracolo impossibile agli uomini, il miracolo dell’unità fra gente che sarebbe stata estranea - poiché è impossibile, all’uomo lasciato solo, una vera unità anche tra l’uomo e la donna -. La prima responsabilità è rendere presente Cristo dovunque. E se sei da solo in un ambito, in un ambiente, è come se tutta la tua personalità, con nostalgia, gridasse allo spettacolo confortante e pacificante della comunione cristiana, e il tuo modo di comportarti non potrà non comunicare agli altri qualcosa di quello che è in te. 2)In secondo luogo, il compito che la nostra compagnia ha di fronte all’umanità di oggi è quello di salvare l’uomo dal dispotismo del potere, di qualunque natura sia, a qualunque livello si esprima, perché l’uomo è rapporto con Dio, con l’infinito. La nostra compagnia ha questa “libertà”, che non è fare ciò che pare e piace: la libertà è l’affermarsi dei legami che ci costituiscono (così si capisce il valore del padre e della madre per il figlio, ma innanzitutto il valore di Dio per il padre e per la madre).
Primo, dunque, la coscienza della responsabilità che abbiamo: rendere presente Cristo nella nostra carne, attraverso la nostra testimonianza: la testimonianza è un modo di comportarsi di una coscienza di sé investita da quella memoria, a cui è presente quella memoria. Secondo, liberare l’uomo da ogni tipo di dispotismo, dal potere, affinché il potere ritorni a essere quello che fu il potere di Cristo: servizio; un servizio.

Tra pochi giorni, il 27 ottobre, ad Assisi si compirà il grande gesto lanciato dal Papa, cui converranno esponenti di tutte le religioni. Il significato più grande di quel gesto è chiaro: solo l’uomo percepito nella prospettiva del suo senso religioso, solo l’uomo colto nella sua essenza, cioè nell’essenza del suo cuore, che è il senso religioso, solo quest’uomo può essere operatore di rapporti pacifici, operatore di pace. Una valorizzazione profonda della sostanza del cuore dell’uomo può essere fatta in un modo mirabile, lucido, solo nella coscienza destata da Cristo, solo nella coscienza cristiana. Anche questo è paradossale. Potremmo allora aggiungere che, per salvaguardare la pace, condizione per un cammino più umano, la nostra compagnia deve lottare contro l’ateismo della vita. Ci può essere un ateismo teorico, sempre più messo alle corde; ma c’è un ateismo concreto, la vita come edonismo, la vita come “soddisfazione”, l’abbiamo detto prima, che diventa sempre più grande e, come ha detto Giovanni Paolo II nel discorso su Evangelizzazione ed ateismo, investe tutte le Chiese. La lotta contro questa falsa soddisfazione ci rende fratelli di tutti coloro che incontriamo. Invece la ricerca di questa falsificata soddisfazione, che è l’ideale che possono proporre ai loro popoli coloro che detengono il potere, questo ideale di falsificata soddisfazione rende soli come cani, egoisti. L’ateismo pratico, l’ateismo di tutti i giorni è un egoismo che ci chiude sempre di più in una solitudine spaventosa. Dopo aver ben delineato quelli che, secondo me, sono gli accenti principali del tempo che viviamo e quale sia, rinverdito nella coscienza, il compito terribile, tremendo, grande, potente, ma tenero, che abbiamo, quello di essere il “pretesto” per la presenza di Cristo; dopo aver delineato quali siano i compiti che abbiamo, il triplice compito che ci spetta (rendere presente Cristo; liberare l’uomo dalla schiavitù del potere, nella libertà del suo rapporto col destino; l’abolizione nella nostra vita dell’ateismo militante pratico), mi permetto concludere con questa frase di Giovanni Paolo II, tratta da un discorso fatto agli emigranti polacchi in Germania: «Soltanto gli uomini santi (per il cristianesimo, come per la Bibbia, il santo è colui che riconosce Dio presente, Dio che è diventato presente nella sua vita, il Dio dell’Alleanza) sono capaci di costruire ponti stabili fra le nazioni, perché soltanto i santi fondano la loro attività sull’amore. Se il posto dei credenti e dei santi è occupato da uomini senza Dio, allora egoismo e odio diventano la legge, come testimonia la successiva storia della convivenza tra le nazioni tedesca e polacca».

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